Pagina:Serao - La mano tagliata, Firenze, Salani, 1912.djvu/49

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la mano tagliata. 43


— No.

— Le hai dato il denaro?

— Sì.

— Che ti ha dato da mangiare?

— Della carne, rimasta dal pranzo di ieri sera e accomodata con le cipolle. Ma ho dovuto ancora aspettare che ciò si riscaldasse. Rosa era di malumore.

— E Rachele che faceva, intanto?

— Era salita su, in camera sua, a leggere.

— Non l’hai riveduta?

— No.

— Che è, questo libro dei Promessi sposi? Lo hai letto?

— Io, no.

— Io, neppure. Sarà uno di quei brutti libracci di questi cristiani!

— Ne aveva un grande desiderio, la signorina Rachele.

— Chi sa chi gliene ha parlato! — mormorò il padre.

Ma erano giunti al vicolo del Pianto, uno dei tanti del Ghetto. Nero, sporco, fra piccole case di uno o due piani, con un’aria fetida che trapelava da quelle mura gocciolanti umidità, il vicolo del Pianto avrebbe fatto orrore e terrore a qualunque galantuomo vi si fosse arrischiato in un’ora avanzata della notte. Quell’ambiente respirava la miseria, la sudiceria, il vizio e forse il delitto. A quell’ora, solo due o tre finestrette apparivano illuminate, attraverso i vetri sporchi.

Mosè Cabib si fermò innanzi a un portoncino basso, serrato; tirò una catena di ferro e un suono debole di campanello corrispose dall’interno. Al primo piano una finestretta si schiuse e una testa di donna si affacciò:

— Chi è?

— Sono io, Rosa, apri. —