Pagina:Serra - Scritti, Le Monnier, 1938, I.djvu/214

Da Wikisource.

severino ferrari 167


Che cosa volete chiosare qui? Si possono fare dei commenti all’aria che troviamo tornando nel nostro paese? Non si può mica dire che sia più purgata, più sottile, più dolce di tutte le altre arie; pure, si respira meglio; è l’aria di casa nostra.

Così non c’è già nulla negli elementi di questa poesia che si sollevi molto sopra al comune; tutto è pulito, detto bene, ma semplice; la mitezza, il fior delle viole, il sole biondo e lucente, la neve alta, quel che si sente e si vede presso al fuoco. Movimento dei versi e lume dell’espressione sono tranquilli, con un sentire di studi pregevole e anche di qualche felicità; ma è una felicità mezzana. Che cosa valgono, queste riflessioni, quando si sa che è Severino che parla? E noi vogliamo bene a lui. Vogliamo bene anche alla mezzanità, in quanto ci rende, sopra tanti sforzi e stenti, la misura migliore di lui. Dopo si trova la sposa, quella buona figliuola e bella amorosa sua,


     (Spunta il mattino, e il sole te spia fra le persiane;
ti trova in pianelline, discinta e in cuffia bianca.
Tu gli apri; egli ti dice — Io parto per lontane
regioni; se hai saluti, li porto. — )

e il gran letto bianco, sorridente; e poi, a compiere a nota figura di tutte le sue parti più famigliari e più liete, giungono gli amici, ricordàti con una leggerezza di tocco, che potrebbe essere superficiale, ma nell’agevolezza del discorso, riesce soltanto amabile:


     Non so se i dolci amici di Spezia e di Livorno
di Modena e Bologna e Firenze e Milano
m’abbian cader lasciato giù via da l’aureo corno
de la memoria, come un fior vizzo di mano:
io so che spesso a mensa a canto a lor m’assido;
trovan vuoto il bicchiere, ed io li guardo e rido.