Pagina:Settembrini, Luigi – Ricordanze della mia vita, Vol. II, 1934 – BEIC 1926650.djvu/105

Da Wikisource.
[385] la finestrella sul mare 99


dove dormono per istanchezza di dolori alcuni disgraziati compagni, e le onde dell’infecondo mare, e il cielo dipinto dalla benedetta luce del sole, e sentiva venirmi sul volto, entrarmi nei polmoni un filo d’aura vitale che mi ha ristorato le forze, mi ha messo nell’anima quella dolce malinconia che spesso ho sentito al suono d’uno strumento musicale, mi ha armonizzata la vita ed il pensiero. Mentre cosí stavo, io sognavo ad occhi aperti, e mi veniva a mente il mio caro figliuolo che ora va scorrendo i mari, e che non so dove ora sia, ché son circa quattro mesi e non ho sue lettere: e mi ricordavo quando lo vidi e lo benedissi l’ultima volta il 18 dicembre 1851 prima che egli partisse per l’Inghilterra. Chi sa che fa ora il povero figliuol mio, che patisce e quanto patisce! Chi sa se potrò piú rivederlo! Egli ha giá diciotto anni! oh quanto vorrei vederlo! Se il legno dove egli è navigasse per queste acque, se da lontano ei vedesse questo scoglio, e il tetro ergastolo sulla cima di questo scoglio, oh che sentirebbe il povero figliuol mio a questa veduta! Che dolore, che strazio avrebbe il povero giovane?

Mentre cosí pensavo e stavo per piú profondarmi in questo doloroso pensiero, mi sono sentito una mano su la spalla, e Gennarino mi ha detto: «Che guardi?» «Il mare ed il cielo», ho risposto. Sono sopravvenuti altri, ed io mi sono allontanato da quel pensiero e da quella finestrella. La quale è giá chiusa, perché è notte, e ciascuno al suo posto o legge, o scrive, o mangia, o fuma, o fa niente: ed io spiegato un rozzo tavolino sul quale la sera Gennarino ed io sogliamo leggere e scrivere, ho presa la penna, e questo quaderno di memorie che da quaranta giorni non vedevo e non toccavo piú, e in esso mi sono messo a scrivere a caso come gitta la penna.

Sono passati quaranta giorni: e che ho fatto? Ho sofferto: non potrei, non saprei dire che ho sofferto: il corpo è stanco e disfatto, l’anima torpida e dormente. Sono quattro anni da che dormo nell’ergastolo: e sono come il ghiro che nel verno dorme e si nutrisce la vita coi succhi e col sangue acquistato mangiando la state: cosí vivo anch’io, e nutrisco la vita della