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VI

(La traduzione di Luciano).

Santo Stefano, 3 febbraio 1854.


 Cara e diletta Gigia mia.

Ti mando una parte della traduzione di Luciano: due libretti, uno di carattere mio, ed uno di carattere d’un giovane politico. Quali de’ due manderai? Io vorrei che tu ritenessi il mio: ma l’altro non mi pare di troppo buono carattere in principio: e non vorrei essere biasimato di poca pulitezza mandando una scrittura non pulita. Ma sono nell’ergastolo, tra il fumo e le lordure. Fa come credi per questo, manda qual vuoi. Appresso ti manderò altri di questi libretti, che in tutto dovranno essere quattro, o cinque. Ti mando ancora una lettera pel signor P(anizzi) dalla quale rileverai perché non scrivo anche a tua cugina: ma la lettera dovrá esser letta da ambedue i cugini prima di mandarla1. Io non posso mandare direttamente alla cugina questo libretto, dove essendo qualche oscenitá, non conviene presentarlo ad una donna, la quale potrebbe offendersi, o formare di me non troppo buon concetto. Quando il signor P(anizzi) avrá dato il suo parere, allora una parte sará offerta a lei, e le altre agli altri. Ella potrá leggere tutto, ma a me non conviene di presentarlo tutto. Questa delicatezza io la debbo prima a me stesso e poi a lei. Mi dirai tu: «E come ti viene in capo di tradurre scrittore dove è qualche oscenitá»? Ecco qui, Gigia mia: le opere greche son piene di queste oscenitá, quale piú, quale meno: era il tempo, era la gente voluttuosa: e le piú belle opere

  1. [Allusione a lord e a lady Holland, che s’interessavano del Settembrini. N. d. E.]