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XVII

(Amarezze politiche).

Santo Stefano, il dí di Pasqua 16 aprile 1854.

. . .1. Ho letto le espressioni cortesi del mio Panizzi. Ma, diletta mia, egli s’inganna, e forse si inganna per affezione, e per pietá di una sventura grande. Io conosco me stesso, so quello che valgo: e senza velo (io parlo a te che mi sei moglie e sei parte di me stesso) e senza velo ti dico che io valgo pochissimo: e mi rattristo considerando in quale bassezza ha dovuto cadere la letteratura, e il sapere, se un uomo come me è riputato qualche cosa. L’aveva io il desiderio di divenir qualche cosa, l’aveva io un ardore immenso per gli studii, amava io il sapere come amo te, o mia Gigia adorata, ma tu sai che la fortuna ci è stata sempre nemica, mi ha negato persino i libri: onde sono rimasto ignorante, e tormentato da una grande idea che non ho potuto raggiungere giammai. Sai chi sono io? Conoscimi bene, e sappi che io mi sono uno che ho un po’ di buon senso, molto affetto, e parlo alla semplice, niente piú, niente, niente. Chi mi dice altro, mi fa ridere, o mi fa sdegno. Ma tu mi conosci: onde tienimi quale mi hai giudicato, non quale mi giudicano gli altri da lontano. Nella lettera che mi hai mandato si dice che si è fatto parlare di me all’imperatore de’ francesi, e «Sua Maestá se mi potrá servire, lo fará». Vedi come parla il mondo! La maestá di un imperatore servire a me. Io non mi son mai sognato di chiedere grazie, né di raccomandarmi ad intercessori potenti: e son certo che neppure tu, o mia generosa Gigia, ti avrai mai sognato una cosa simile: sará stato un pensiero di quei

  1. Vedi lettera 3 febbraio e 9 febbraio. [Nota di R. S.]