Pagina:Sonetti romaneschi III.djvu/333

Da Wikisource.

Sonetti del 1834 323

È celebre il Symposium seculare celebrato il 14 settembre 1821, all’osteria del Ponte-Milvio, dalla romana compagnia dei santi-petti, in commemorazione della morte di Dante, accaduta in quel giorno, cinque secoli prima. [Si noti che tra questi commemoratori del divino Poeta, c'era anche il Cecilia, che fu poi gendarme e spia privata di Leone XII. Cfr. il sonetto: La porta ecc., 20 ott. 33.] Essendo fra le libazioni molte e gli onesti parlari, scomparso d’improvviso Geronimo nostro, e da tutti i Symposiasti chiedendosi: "Ov’è elli? ov’è elli?,, indi a poco ei ritornò, pieno il grembo di fiori da orticheto, gridando quanto più alto sapeva con quella suavissima voce: “Manibus date lilia plenis.„ E così ne gittò contra un busto del poeta: mentre gli inteneriti fratelli, colle braccia al petto incrocicchiate e i colli torti, lagrimavano di quella inspirazione del santo-petto Geronimo, facendo i meglio pietosi visacci che ad occhio umano sia dato vedere in questa misera terra. Quindi, per la differenza di colore fra i gigli e i rosolacci, si formò la famosa distinzione del purpureo e del porporino, di che molto onore ebbe a venire a questo dolce nido della patria e allo italo nome. (Vedi la Lettera di Luigi biondi a Salvador Betti suo; Roma, 1821.) - Veramente poi il pranzo pel Natale di Roma non seguì all’osteria come quello de’ Parentali di Dante, ma sull’Aventino. [Il Belli confonde una lettera del Biondi al suo Salvator Betti, inserita nel Giornale Arcadico del maggio 1827, con un'altra diretta invece, il 21 sett. 1821, al suo Giulio Perticari, inserita nel tomo XI dello stesso giornale, e che è appunto quella in cui si parla del banchetto per Dante. Eccone, ma non tutta, la parte relativa ai gigli e a' rosolacci: "In questa l'Amati, sommormorando a bassa voce il principio del seguente verso di Virgilio: Purpureosque jacit flores; si era levato dal desco, ed era a basso disceso: né sapevamo il perchè ciò facesse. Quando il vedemmo tornare colle mani piene di rose, che avea colte nel sottoposto orticello: e, spargendole sulla tavola, gridava con voce stentorea: Purpureos spargam flores, animamque poetae His saltem accumulem donis, et fungar inani Munere; come, lamentando sopra la morte immatura del buon Marcello, disse Anchise presso Virgilio. Ed avendogli noi opposto, che Virgilio parla di gigli, i quali per la loro risplendenza (ciocchè stabilisce la qualità della porpora) poteano dirsi purpurei; egli fortemente gli orecchi nostri intuonò dicendo: che non solo gigli, ma pur viole, e corone di mirto, e, più che ogni altro arbusto o fiore, si spargevano rose in onore de' defunti, e specialmente nell'anniversario della lor morte. E qui cominciò a riferire molte antiche iscrizioni...„ <span class="errata" title="Il 26 ottobre del 1835, il Belli mandava questo sonetto In morte di Geronimo nostro all’Amalia Bottini, con una “lettera dichiarativa,„ di cui ho trovato copia tra le suo carte: "I nostri discorsi (come suole accadere conversando, che di uno in altro proposito principiasi talora da un paio di occhiali e si termina coll’incendio di Troia) ci condussero negli scorsi giorni a parlare di quella romana generazione di letterati, i quali, fra sè ristretti e schivi di tutt’altri e tutt’altro che non sia loro e in loro, regalansi scambievolmente il modesto titolo di Santo-petto, e ciò per la santità del loro amore verso le lettere del Trecento, beate quelle e beato questo per omnia saecula saeculorum. Ricorderà, gentil Signora, come io Le narrassi essere uno di costoro venuto a morte nel 1834 e aver commossa la mia povera musa ottocentista a piangerne l’amarissima perdita. Or bene, io Le invio oggi i versi spremuti dal mio dolore in quella lugubre circostanza e consecrati a tutti i Santi-petti compilatori del Giornale Arcadico, giornale profetico, che, zoppo più di Zoilo nelle sue pubblicazioni, suole spesso annunziare, con data p. e. del 32, antichità dissotterrate nel 34. Se questa non è profezia bella e buona, Dio sa cosa ell’è. L’illustre defunto ebbe nome Girolamo Amati di Savignano. Fu veramente buon grecista, buon latinista, buono scrittore italiano. Molto seppe, moltissimo presunse. Con pochi usava: degli altri né rispondeva pure al saluto. Sordido e senza camicia sotto i panni: di volto Satiro, e così di parole; e tuttavia ne’ suoi scritti, per umana contraddizione, non raro adulatore de’ potenti. Stridulo poi nella voce come cornacchia, e ruvido nel corpo e ne’ modi quanto il rovescio d’una impagliatura di sedia. A quella corrugata fronte, degnissima di un posto nella commedia de’ Rusteghi, profondevano i di lui confratelli il nome solenne di fronte omerica, in grazia forse del cervello che ricopriva. Ne’ miei 14 versi e nella nota dichiarativa incontransi alcuni de’ fiori di lingua onde vanno sparse le carte e olezzanti i colloqui de’ Santi-petti, ai quali il Segato di Belluno niente saprebbe più dare oltre quanto lor concesse la prodiga Natura. Se v’ha da ridere, signora Amalia, rida con me. Se poi, anzichè di riso provi Ella senso di nausea, laceri questi fogli e si rallegri colla dimenticanza e de’ Santi-petti e del loro encomiatore G. G. Belli„">Fonte/commento: Sonetti romaneschi/Correzioni e Aggiunte]