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Sonetti del 1833 39


L’OMACCIO1 DE L’EBBREI.

     Ve vojjo dì una bbuggera, ve vojjo.
Er giorno a Rroma ch’entra carnovale,
Li Ggiudii vanno in d’una delle sale
De li Conzervatori2 a Ccampidojjo;

     E ppresentato er palio prencipale3
Pe’ rriscattasse da un antico imbrojjo,
Er Cacàmme4 j’ordissce un bell’orzojjo5
De chiacchiere tramate de morale.

     Sta moral’è cch’er Ghetto6 sano sano
Giura ubbidienza a le Lègge e mmanate7
Der Zenato e dder Popolo Romano.

     De cuelle tre pperucche inciprïate,
Er peruccone allora ch’è ppiù anziano
Arza una scianca8 e jj’arisponne: “Andate.„9

Roma, 4 maggio 1833.

  1. L’omaggio.
  2. I tre magistrati municipali di Roma.
  3. [Così si credeva. Ma nella nota 4 del sonetto: Le curze ecc., 10 genn. 33, io ho dimostrato che nè tutti nè in parte i palii non furono mai tributati direttamente dagli Ebrei.]
  4. Specie di giudice della Sinagoga. [Dall’ebraico haham, che significa “dotto, sapiente„ e anche, come sempre il suo storpiamento romanesco, "Rabbino maggiore.„]
  5. Orsoio.
  6. Ricinto degli Ebrei. [Sano sano: intero intero.]
  7. Leggi emanate.
  8. Gamba.
  9. [“Il primo giorno di carnevale si fa in Campidoglio una funzione che merita d’essere conosciuta. Il Senato s’aduna col Senatore (riduzione in stile geografico da 600 ad 1, dell’antico Senato) seduto sul suo trono; ed a lui si presenta in ginocchio il Rabbino e la deputazione di Ghetto, portando un indirizzo con ampie ed umilissime dichiarazioni di devozione e sudditanza del popolo eletto al Senato romano. Data lettura dell’indirizzo, il Senatore fa col piede l’atto d’allungare un calcio al Rabbino, che si ritira pieno di gratitudine, com’è naturale! Nel medio evo in carnevale il popolaccio maltrattava gli Ebrei e saccheggiava il Ghetto. Questi disgraziati ebber ricorso al municipio, si riscattarono con danari, dichiarandosi sudditi e schiavi del popolo romano. Di qui la cerimonia descritta, e la dichiarazione di sudditanza sub conditione d’aver salve le persone e la roba. Il calcio si diede sino al 1830. Anticamente invece del calcio, il Senatore posava il piede sul collo al Rabbino. E poi accusavano gli Ebrei d’essersi guastato il carattere!„ Così Massimo D’Azeglio, nel cap. XXIII de’ Miei Ricordi. E, poco più poco meno, le stesse cose affermano molti altri scrittori moderni, uno de’ quali, il Mannucci, nota anche lui che negli ultimi tempi il Senatore non dava più il calcio, ma "con atto sconcio del piede„ invitava Rabbino e deputati "a rialzarsi e tornare alle loro abitazioni„ (Gl’Israeliti in Roma; Torino, 1852; pag. 17): che è appunto quel che dice il Belli, attribuendo però l’atto, non al Senatore, ma al più anziano de’ tre Conservatori: Arza una scianca e jj’ arisponne: "Andate.„ Ma per quante ricerche io abbia fatte, non m’è riuscito di trovare documenti certi nè rispetto all’imposizione del piede sul collo, nè al calcio, nè ad altro atto equivalente. Che però un tempo questa barbara usanza, qualunque ne fosse l’origine, ci possa essere stata, è tutt’altro che inverisimile; specialmente se si considera che nelle prestazioni di omaggio, anche quando non si trattasse di Ebrei, ma di comuni investiture feudali, si facevano qualche volta atti non di soggezione, ma addirittura di schiavitù: e il Du Cange cita a questo proposito un documento del 1210, dal quale si rileva che un certo conte, nel prestare omaggio per un feudo di chiesa a un vescovo, fu tenuto da questo per una catena che gli cingeva il collo. Del resto, se come risulterebbe dai documenti ch’io ho esaminati, nell’omaggio degli Ebrei ai Conservatori di Campidoglio non ci fu, almeno fin dal secolo passato, nè imposizione del piede sul collo, nè calcio, nè altra cosa simile, ci furono però indubitabilmente altre dure condizioni. Nel 1743, i Conservatori intimarono alla Comunità israelitica che il Rabbino e i due Fattori, da essa delegati a prestare l’omaggio, non ardissero più di presentarsi vestiti con rubboni di seta negri, ma bensì coll’abito ordinario negro da città, col collare: e, quell’anno, l’ordine fu ubbidito puntualmente, e i Conservatori, per ogni buon fine, ne fecero stender memoria nel verbale della Congregazione di Camera del 30 marzo dell’anno stesso. (Arch. segr., Cred. 6, tom. 100, pag. 402-3.) Ma poi, il Rabbino e i Fattori essendosi ripresentati in rubbone, li signori Conservatori mon- tarono sulle furie, e il 18 aprile 1746 riconfermarono l’intimazione del 43, comminando, in caso di contravvenzione, la pena di cento scudi d’oro e l’arresto ipso facto de’ colpevoli. Ordinarono inoltre al notaro capitolino, che ogni anno dovesse rogare atto della prestazione dell’omaggio, e dell’abito di chi lo prestava, quando, s’intende, così piaccia alla Santità di Nostro Signore. (Arch. segr., Cred. 7, tom. 40, pag. 116-17.) E la Santità di Nostro Signore, cioè Benedetto XIV, che pure era un uomo d’ingegno, approvò pienamente con deliberazione del 13 maggio successivo. Così s’andò avanti, senz’altri incidenti, fino all’anno 1778, nel quale (come si rileva da un antico registro della Comunità israelitica, esaminato per me dal cav. Crescenzio Alatri) i Conservatori accamparono la pretesa che il Rabbino e i Fattori, nel prestare l’omaggio, s’inginocchiassero con tutt’e due i ginocchi, o perchè prima non s’inginocchiavano affatto, o perchè, com’è più probabile, s’inginocchiavano con un ginocchio solo. L’egregio Alatri mi assicura che tra gl’Israeliti di Roma è comunissima la tradizione che questa nuova pretesa i Conservatori la mettessero fuori coram populo, nel momento stesso che si compiva l’atto di vassallaggio, ma che il Rabbino rispondesse: “Alle Eccellenze Vostre, un punto più giù che a Nostro Signore.„ E, naturalmente, Nostro Signore sta volta diede ragione agli Ebrei. Dopo un tal fatto, si sentì il bisogno di disciplinare più stabilmente le formalità della cerimonia; e quindi, il 1° febbraio 1779, la Congrega Israelitica detta dei Sessanta, fu forzata a fare al Rabbino e ai due Fattori un mandato di procura, cosi concepito: “Vestiti tutti tre, giusta la legge prescritta nella Congregazione dell’Eccellentissima Camera Capitolina dei 18 aprile 1746, confermata li 13 maggio dello stesso anno da Benedetto Papa XIV di S. M., dell’abito nero da città col collare, si portino personalmente nel primo sabato del prossimo Carnevale, 6 del mese di febbraio 1779, al Campidoglio, e si presentino all’ora solita avanti gli Eccellentissimi ed Illustrissimi Signori Conservatori e Priore dei Caporioni, rappresentanti nel loro Soglio l’inclito Senato e Popolo Romano, a prestare ad essi in nome dell’Università e comunità tutta degli Ebrei di Roma il consueto atto di ossequio e di omaggio nella seguente maniera: si presenteranno riverentemente il Rabbino e Fattori a piedi del Soglio in cui saranno seduti secondo il solito gl’Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Conservatori e Priore dei Caporioni coll’Illustrissimo Signor Fiscale dell’Eccellentissima Camera Capitolina, ed ivi giunti il Rabbino s’inginocchierà ad un ginocchio avanti di loro sull’ultimo gradino del Soglio, indi levatosi in piedi e stando insieme coi Fattori umilmente inchinato reciterà, avanti gl’Illustrissimi ed Eccellentissimi suddetti Signori Rappresentanti l’inclito Senato e Popolo Romano, la solita formola di prestazione di ossequio ed omaggio, cioè: Con sensi di vera osservanza e devozione, noi Fattori e Rabbino di questa misera Università degli Ebrei ci presentiamo avanti l’alto Trono delle EE. VV. a prestargli riverentemente in nome di essa Università umile ossequio ed omaggio con pregarli a compatirci de’ loro benigni sguardi, che non si mancherà dal nostro ceto implorare l’Altissimo per la lunga tranquillità e quiete del Sommo Pontefice felicemente Regnante, e della S. Sede Apostolica, unita alle EE. VV. ed a tutto l’inclito Senato e Popolo Romano. Dopo poi d’aver ricevuto dall’Eccellentissimo Magistrato e per esso dall’Illustrissimo ed Eccellentissimo Primo Conservatore la solita risposta, partiranno colla reverenza dalla camera d’udienza.„ Il 5 del detto mese, questo mandato fu convertito dal notaro capitolino in pubblico istrumento, col quale la Comunità israelitica si obbligò di adempire in ciascun anno nella stessa forma, senza variazione o innovazione alcuna, rimossa qualunque eccezione, l’atto di ossequio; e nel successivo giorno 6 l’atto fu eseguito, e se ne rogò al solito un altro istrumento, che si chiude con la risposta del Primo Conservatore, in questi termini: “Accettiamo ben volentieri l’omaggio, fedeltà, soggezione ed ossequio, che voi, a nome di tutto il ceto ed Università degli Ebrei, rinnovate al nostro Magistrato Romano; e siccome non vogliamo dubitare che sarete sempre per obbedire al Principe ed osservare le sue Leggi, ed eseguire gli ordini di questo Sagro Senato, pagando il solito tributo„ (V. la nota 4 del sonetto: Le curze ecc., 10 genn. 33) “e dazio, dovuti in conformità delle tabelle di questa nostra Camera Capitolina; così di buon animo vi concediamo la nostra protezione ed assistenza, con fiducia che sempre ve ne mostrerete degni. Andate.„ (Morelli, Delle Finanze del Comune di Roma; Roma, 1878; pag. 111-12.) Dunque, il superbo Andate non è un’invenzione della voce pubblica o del Belli. Ma dell’alzar la gamba non si fa punto parola nè in codesti istrumenti, nè in parecchi altri di quelli successivi d’ogn’anno, che io ho consultati. In tutti bensì è notato: che l’omaggio si prestava per immemorabile consuetudine ed anche in vigore delle costituzioni pontificie; che i Signori del Campidoglio rimanevano, durante tutta la cerimonia, seduti e col capo coperto del solito pileo; e che, finalmente, la cerimonia stessa si compiva in pubblica concorrenza di popolo. Il quale, affollato, salutava con urli l’arrivo del Rabbino e de’ Fattori; li copriva di motteggi e di scherni nella sala durante la cerimonia; e, dopo il disdegnoso comando di partenza, li accompagnava fuori con indecenti derisioni ed oltraggi. E come se tutto questo non bastasse, nel 1828 fu anche resa pubblica con incisione caricata (opera, credo, del Pinelli) la dipintura dell’atto umiliante. Cosi è detto in una Memoria presentata dopo il carnevale del 1836 dalla Comunità israelitica a Gregorio XVI: Memoria di cui esiste la minuta tra le carte della Comunità, e da cui si rileva anche un altro fatto più importante. Il D’Azeglio e il Mannucci dicono che l’omaggio si prestava davanti al Senatore, il quale, com’è noto, aveva attribuzioni diverse da quelle de’ Conservatori, e residenza e trono a parte. Il Belli invece, e i documenti fino a tutto il secolo passato, del Senatore non ne parlano mai. Ora, la citata Memoria e altre, comunicatemi dall’Alatri, mi mettono in grado di affermare che, forse dopo le vicende politiche del 1798 e del 1808, l’omaggio fu duplicato, cioè cominciò realmente a prestarsi, con le stesse formalità e nello stesso giorno, anche davanti al Senatore; anzi, pare, prima davanti a lui, e poi davanti ai Conservatori. Dimanierachè, i poveri Deputati della Comunità, per recarsi dal Palazzo Senatorio a quello de’ Conservatori, o viceversa, dovevano, in parrucca o coi capelli incipriati, e con l’abito nero da città col collare, traversare la Piazza del Campidoglio, gremita di volgo indigeno e di stranieri volgarmente curiosi. A render quindi meno mortificante questa nova berlina, nel 1827 la Comunità ottenne dalla bontà de’ Superiori, che i suoi Deputati non s’imparruccassero o non s’incipriassero, e, a quanto pare, che non vestissero più neppur l’abito di costume. Ottenne inoltre, che invece di apparati (forse addobbi per le feste carnevalesche), si esibisse un mazzo di fiori; e che nella risposta si sopprimesse quell’umiliante Andate! Ma nel 1836, avendo essa supplicato che l’omaggio si prestasse in forma del tutto privata, come in realtà avrebbe dovuto prestarsi in forza di un istrumento, fatto dal notaro degli stessi Conservatori il 2 febbraio 1668 (istrumento che, bisogna dire, fosse stato dimenticato dai Sessanta che nel 1779 si lasciarono carpire quell’infausta procura); i Signori del Campidoglio non vollero acconsentire: anzi, ritirarono fuori l’obbligo, non so se della parrucca, ma certo dell’abito di costume; concessero bensì che i Deputati lo vestissero dentro le stesse sale capitoline, e che invece di una sola Deputazione, ne venissero due, per prestar l’omaggio contemporaneamente, una al Senatore, l’altra ai Conservatori: giacchè così si evitava la berlina del traversar la piazza, e la folla, divisa nelle due sale, sarebbe stata minore. Ma, non ostante la promessa, l’atto non fu contemporaneamente eseguito, sicchè il colto pubblico potè godere d’un doppio spettacolo; e il Signor Principe Senatore (Domenico Orsini), nella sua baronale risposta, non tralasciò l’Andate! Per tutte queste cose, la Comunità si rivolse con la detta Memoria al gran cuore di papa Gregorio, facendogli specialmente notare, come a lei dolesse non l’omaggio in sè stesso, ma il doverlo prestare in quelle forme, e nel tempo in cui la plebe si radunava a bella posta per deriderla, dileggiarla e insidiarla. Gregorio però non si commosse, e, nell’udienza del 6 novembre di detto anno, rispose che non trovava opportuno di fare veruna innovazione. — Ma questa barbara usanza quando cominciò? e che valore può darsi alle parole per immemorabile consuetudine, che ricorrono nei citati istrumenti? Su ciò io posso dire assai poco. La Memoria presentata a papa Gregorio afferma che l’omaggio cominciasse non prima del secolo XVII; ma non ne dà altra prova, che il non trovarsene menzione in tempi anteriori. Infatti, parecchi scrittori dei secoli XIV, XV e XVI (per esempio, lo Scoccia-Pile, l’Infessura, il Nantiporta, il Ratti, ecc.), che parlano del carnevale di Roma, e quasi tutti anche della parte che vi avevan gli Ebrei, non parlano punto dell’omaggio. Non ne parlano neppure lo Statuto della città riformato da Paolo II nel 1469, nè il medesimo, riformato da Gregorio XIII nel 1580; nè le bolle durissime contro gli Ebrei di Paolo IV e di Pio V. Il primo documento (di quelli, s’intende, che ho potuto veder io), in cui lo si trova menzionato, ma, come cosa già in uso sino dal pontificato di Paolo II, o altro più vero tempo, è il chirografo di Clemente IX del 28 gennaio 1668, col quale mentre si aboliva l’obbligo che gli Ebrei avevano nel carnevale di fare la corsa a piedi e di precedere la cavalcata de’ Magistrati di Campidoglio (Cfr. la citata nota), si voleva non per tanto mantenuto il solito omaggio. Se però non posso dir altro intorno alla sua origine, posso, ed è cosa più lieta, raccontarne con sicurezza la fine. Abbiamo visto che Massimo D’Azeglio lo dava come tuttora in uso mentre scriveva i Ricordi, cioè nel 1865. Il Mannucci diceva altrettanto nel 1852. Ma la verità è che l’omaggio fu prestato per l’ultima volta il 6 febbraio 1847, e fu prestato in forma privata, senz’abito di costume, a porte chiuse, e perfino senza i due soliti testimoni; perchè così aveva ordinato Pio IX, accogliendo l’istanza che gliene aveva fatta la Comunità israelitica. (Lett. 3 febb. 1847, del card. Gizzi, Segret. di Stato, al Senatore di Roma; — Istrumento del notaro capitolino Vitti, in data 6 detto.) Poi lo stesso Pio IX, nel Motu-proprio del 1° ottobre del medesimo anno, aboliva espressamente il tributo pecuniario, e implicitamente l’omaggio, poichè non lo comprendeva tra le prerogative delSenato Romano: delle quali, per ordine suo, si compilò anche un prospetto a parte, in cui non si parla punto di quella iniquissima usanza. E perciò, il 10 gennaio 1848, una deputazione d’Israeliti si recava a ringraziarlo, e gli leggeva un indirizzo, che fu pubblicato nel giornale romano La Speranza (num. 10), e nel quale, tra l’altre cose, era detto: “Fra le grazie ai nostri fratelli nel fuggito anno dalla Santità Vostra impartite, rifulge quella ben consolante e caritatevole, e che per ogni dove risuonò gradita, dell’abolito doloroso atto di vassallaggio, che un dì prestavasi sulla Vetta Capitolina, e dell’abrogata contribuzione. I nostri correligionari d’ogni Stato ne esultarono, e seco noi benedirono il già adorato Vostro Nome.,, E, per questo rispetto, possiamo benedirlo anche noi.]