Pagina:Sotto il velame.djvu/147

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le tre fiere 125

in cui non è luce. La belletta è opposto all’aere; il suo nigrore, al sole. Tristi non dovevano essere nell’aere dolce e nel sole; questo e quello dovevano essere farmaco alla loro tristizia. Ora questo farmaco non è quello stesso che valse, a Dante? che gli diede speranza, e perciò impedì che egli già avanti la lonza si attristasse, come fece poi avanti la lupa?1 Invero la cagione a bene sperare fu “l’ora del tempo„, e il tempo era dal principio del mattino e il sole montava su: era il sole, dunque. E poi era la dolce stagione, e la stagione era di primavera, e l’aere, che faceva dolce la stagione, era, dunque, dolce. A quei fitti nel fango l’aer dolce e il sole non valse; e furono tristi: a Dante sì, valse, e non s’attristò e sperò bene. Or come si chiama la tristizia di quei ranocchi gorgoglianti nel fango? Quei della palude pingue di che sono rei? Quei della palude pingue, come quelli2

               che porta il vento e che batte la pioggia
               e che s’incontran con sì aspre lingue,

cioè i lussuriosi e golosi e avari con prodighi, sono appunto colpevoli di quella incontinenza la quale

               men Dio offende e men biasimo accatta,

che la malizia. Contro l’incontinenza avrebbe giovato l’aere e il sole a quelli della palude; giovò, l’aere e il sole, a Dante contro la lonza. Dunque la lonza è l’incontinenza.

Ma si può dire: come il peccato di quei fitti nel

  1. Inf. I 57.
  2. Inf. XI 70 segg. cfr. 83 seg.