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Pagina:Sotto il velame.djvu/425

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l'altro viaggio 403


E come nel ciel del Sole è fame, sete è nel ciel di Marte. Si direbbe che è data, codesta sete, “dall’affocato riso della stella„, che era “più roggio che l’usato„.[1] Cacciaguida invero afferma:[2]

                        il sacro amore, in che io veglio
                 con perpetua vista, e che m’asseta
                 di dolce desiar...

E Dio invero fu solo che li “allumò ed arse col caldo e con la luce„.[3] E Dante solve un digiuno, che può essere di bevanda, e sazio vuol essere d’un nome, come si può essere di acqua.[4] E Beatrice vuole che Dante[5]

                                                  s’ausi
               a dir la sete, sì che l’uom gli mesca;

e Dante gusta un discorso, in cui è temprato “col dolce l’acerbo„, e ne prepara un altro che a molti può sapere “di forte agrume„. [6] L’eco del sitiunt è così distinta nella spera di Marte, come dell’esuriendo in quella del Sole. E l’oggetto sì di quella sete e sì di quella fame, oggetto che è la giustizia, si vede chiaro nell’una e nell’altra spera; chè là si parla di tali che fuggono o coartano la scrittura[7] e di genti, che per dar retta a quelli, sono troppo sicure nel giudicare. Si legga:[8]

               Non sien le genti ancor troppo sicure
               al giudicar, sì come quei che stima
               le biade in campo pria che sien mature:

  1. Par. XIV 86 seg.
  2. Par. XV 64 segg.
  3. ib. 76 seg.
  4. ib. 49, 87.
  5. Par. XVII 11 seg.
  6. Par. XVIII 3 seg., XVII 117.
  7. Par. XII 126.
  8. Par. XIII 130.