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Pagina:Spanò Bolani - Storia di Reggio Calabria, Vol. II, Fibreno, 1857.djvu/116

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   106 libro ottavo

dirotte e precipitose che la terra calabra, massime quella della Piana, restò altamente danneggiata, non solamente per gli allagamenti de’ fiumi, ma ancora per esserne stati i terreni vie maggiormente ammelmati e fatti capaci di dissoluzione. Cotale perturbazione della natura presagiva calamità ancor maggiori, ma niuno si dava a temere ch’esse fossero per arrivare al totale discioglimento della contrada. Avevano altre volte quei popoli simili piogge e simili inondazioni vedute, ma dal guasto de’ superficiali terreni e dal danno delle ricolte in fuori, da altri maggiori disastri non restarono afflitti.

«Intanto era il nuovo anno 1783 giunto al principio di febbrajo, mese per fatal destino funesto alla Magna Grecia, e specialmente alle Calabrie; imperciocchè in esso piombò la fatale rovina sopra i distretti Ercolanese e Pompejano sotto il consolalo di Regolo e dì Virginio; in esso fu conturbata alcuni secoli avanti la Sicilia, e distrutta Catania; in esso nel duodecimo secolo sommosse da’ tremuoti non solamente la Sicilia, ma eziandio le Calabrie. Il principio più fatale che la fine, poichè al quarto od al quinto giorno di lui accaddero quegli strabocchevoli scrosci della natura.

«Correva appunto il quinto giorno di febbrajo dell’anno di cui scriviamo la storia, ed il giorno era giunto alle diciannove ore italiane, vale a dire in quella stagione un poco più oltre del mezzodì. Nell’aria non appariva alcun segno straordinario. Rare e quiete nubi a luogo a luogo il cielo velavano. Nè il Vesuvio, nè l’Etna buttavano; Stromboli non più del solito. Sentivasi il freddo, ma non oltre l’usato: il consueto aspetto stava sopra tutte le calabresi cose. Eppure la terra in sè medesima chiudeva un insolito furore. O fossero acque, o fossero fuochi o fossero vapori potentissimi che scarcerare si volessero, quella ordinaria calma dovea fra brevi momenti turbarsi, per dar luogo ad un romore e ad uno scompiglio orrendo. Gli uomini nol presentivano, e senza tema le ore fra i soliti diletti e fra le solite fatiche andavano passando. Ma non gli animali bruti che inquieti, fastidiosi, spaventali, col correre, col tremare, col gridare mostravano che alcuna terribil cosa si andava avvicinando, ed aspettavano. Eppure ancora l’uomo non si destava, nè in se medesimo le memorie degli antichi tempi riandando, quanto fosse imminente la sua ultima fine non pensava. Un giudizio universale l’aspettava, ma brutale e cieco, poichè era per ravvolgere nel medesimo abisso indistintamente e chi era bianco d’innocenza e chi era nero di delitti.

«Trascorso era il giorno cinque di febbrajo di pochi minuti oltre il mezzodì, quando udissi improvvisamente nelle più profonde