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Elis. — E perdere il posto?...

Lina. — Oh, povera me, povera me!...

Elis. — Via, si colmi; si faccia coraggio. Beva un dito di vino. S’è alzata da tavola senza bere.... Ma come vuole aver coraggio così? e star bene? Come? (Porge a Lina il bicchiere, e Lina beve alcuni sorsi). Lei deve dar retta a me, alla sua vecchia serva, che le vuol bene. Guardi un po’ certe altre come fanno. Impari. Impari dalla signora Erminia, per esempio.

Lina. — Taci! Non nominarla quella lì. Non nominarla, te lo proibisco. (Fa alcuni passi per la sala e s’accosto all’uscio della camera origliando; poi ritorna al proscenio). Certo che se io fossi come quella...

Elis. — Avrebbe marito, farebbe la signora....

Lina. — Basta, Elisabetta! Avrei dovuto ingannare un uomo onesto, abbandonare il mio bambino.... Oh! tu stessa, che sei una povera campagnuola, che hai passato tutta la vita nelle case degli altri, tu non l’avresti fatto.... Non l’hai fatto!

Elis. (vivamente, commossa). — È vero. Ha ragione. Non l’ho fatto. Ma appunto perchè so cosa vuol dire, appunto perchè ho patito tanto; mi fa male di veder lei, che è tanto più sensibile, tanto più delicata, patire come me. Mi pare una ingiustizia troppo grande.

Lina (le si accosta e le posa affettuosamente una mano sulla spalla). — Buona Elisabetta. Pensa quanto di più patirei se non avessi il mio bambino e se dovessi tremare continuamente.

Cesarino (di dentro). — Elisabetta! Elisabetta!

Lina. — Ah!... (accorrendo).

Ces. — È venuta la zia?

Elis. — Sì....

Lina. — Sono qui, caro. Come stai? (Entra nella camera, da dove ritorna quasi subito tenendo il piccino per la mano).

Ces. — Sto bene, sai, zia. E tu?

Lina. — Anch’io, amore. Vuoi far colazione?

Ces. Sì, ho fame. Ma prendimi prima un momento in braccio.

Elis. — Eh, Cesarino! Sai che non sta bene!