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bandonata dai suoi, l’intrusa, come la chiamava la signora Cleofe, doveva eliminarsi. Il suo buon padre adottivo che l’aveva raccolta, nudrita, e educata con tanto amore, meritava quel sacrificio. Non fosse che per lui solo, ella doveva farlo; doveva tacere, fingere e portare il suo triste segreto con se, nella tomba; doveva accettare il suo destino, coraggiosamente. Ogni ribellione sarebbe inutile, vergognosa. Doveva tacere, soffrire, eclissarsi.

— Per te, padre mio! per te! — diceva senza voce in un impeto di devozione.

Ma l’amore protestava altamente.

Non era possibile. Quel sacrificio era troppo grave.

Quando vedeva Paolo vicino alla sposa, guardarla con passione, parlarle con tenerezza, ella si sentiva gelare e ardere, e si mordeva le mani per non gridare: — Paolo! sei mio! ti amo!

Egli avrebbe riso.

Forse soltanto questo abbominevole pensiero che egli avrebbe riso, le toglieva la forza di parlare.

Avrebbe riso di lei!

Le pareva d’impazzire.

Rievocava tutto il passato. Dai primi sguardi caldi di ammirazione quando la incontrava per la strada, non sapendo ancora chi fosse, ai tentativi di abbracciarla, là in casa, appena fidanzato di Annetta.

Allora egli l’amava, o almeno la desiderava fino alla frenesia. Forse ogni amore di lui non era altro che desiderio, soddisfatto il quale, l’amore svaniva.