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308 nell’ingranaggio


Gilda non potè reggere al suo posto. Premendosi una mano sul cuore, ella andò fino all’uscio che metteva nel salottino per essere pronta a corrergli incontro. Ma la piccola serva aveva richiuso l’uscio e non si sentiva altro passo che il suo. Gilda tremava tutta. S’appoggiò per non cadere. Era una lettera: l’aveva portata un facchino di studio.

La prese e andò a chiudersi nel salottino, senza guardare sua zia. Aveva bisogno di essere sola a leggere, per nascondere almeno una parte della sua angoscia.

Guardò lungamente la lettera prima di aprirla. L’indirizzo mostrava una calligrafia incerta, sconnessa. La condanna doveva essere parsa molto dura anche a lui. Anche lui soffriva.

Questo pensiero soffiò via dall’anima sua, tutto quanto il rancore, tutta l’amarezza. La sua pena raddoppiò, divenne spasimo acuto; ma in quello spasimo trovava ancora una dolcezza.

Era uno stato che somigliava a quello in cui ella era vissuta durante i primi giorni della malattia di Giovanni; si sentiva immersa nell’infinito dolore, oltre a cui nulla più esiste per l’anima; ma nessun pensiero egoista, nessuna piccola collera mondana turbava la grandezza profonda, quasi serena, della sua mortale disperazione. E questa era la dolcezza.

Qualunque cosa egli le avesse scritto, qualunque fosse la risoluzione che aveva preso, ora era sicura che gli avrebbe perdonato. Nulla, nulla per se, tutto per lui. Non era questa la sua bandiera?

Ora apri la lettera. Egli scriveva così: