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telligi, quod sint res quæ solo Dei concursu egent ad existendum» (Princ. phil., I, 51). La parola «sostanza» è evidentemente presa qui nel primo senso: vedremo anzi che Spinoza non ammette l’esistenza di sostanze nel secondo senso.

Def. 4. Per attributo intendo ciò che l’intelletto apprende della sostanza come costituente l’essenza della medesima.

Ma come riconciliare nell’unità della sostanza la dualità profonda degli esseri estesi e dei pensieri, che costituisce il mondo? Spinoza introduce a questo fine il concetto di attributo. Cartesio già aveva notato (Princ. phil., I, 52) che l’esistenza della sostanza non può essere avvertita da noi se non per mezzo di attri­buti, proprietà, per via delle quali essa può agire su di noi. Spinoza fa dell’estensione e del pensiero due unità infinite (infinite ciascuna nel suo genere, nella sua sfera), irreducibili, che esprimono a noi, come at­tributi, la natura unica della sostanza. Ma sono questi attributi (secondo Spinoza) reali maniere d’essere della sostanza o forme subbiettive, sotto cui si nasconde per il nostro conoscere la sua natura impenetrabile? Certo, la questione dei rapporti degli attributi e della sostanza è nella filosofia di Spinoza uno dei punti più scabrosi. Non sembra però che dobbiamo intendere la sostanza come un inconoscibile che si traduce poi subbiettivamente per noi nei due attributi. Contro questa inter­pretazione stanno passi decisivi. Eth., II, 1: «Cogitatio attributum Dei est, sive Deus est res cogitans». Ib., II, 2: «Extensio attributum Dei est, sive Deus est res extensa». Ib., I, 9: «Quo plus realitatis aut esse unaquæque res habet, eo plura attributa ipsi competunt» (ripetuto quasi letteralmente in Ep. 9). E nel Tractatus brevis è detto che l’estensione e il pensiero sono veri at­tributi di Dio «per i quali noi possiamo conoscerlo quale è in sè e non quale agisce esternamente a sè» (Tr. br., I, 2, 28). Quindi possiamo con la maggioranza degli interpreti intendere gli attributi come vere manifesta-