Pagina:Steno - La Veste d'Amianto.djvu/230

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canto alla finestra aperta, ella aveva chiuso gli occhi per meglio astrarsi dalle cose esteriori, per guardarsi meglio dentro, per riandare con raccoglimento maggiore gli eventi di quegli ultimi giorni e le ragioni del suo mutamento.

Da quando datava la sua nervosità? da quando l’insolito desiderio di solitudine che le aveva fatto fuggire quasi tutte le feste offerte a Noris e amare il silenzio e detestare quella rumorosa esuberanza americana che un tempo le sarebbe sembrata così cordiale e così simpatica?

Da quando riscontrava nel suo carattere e nel suo umore i mutamenti improvvisi che la facevano passare dieci volte in una giornata dal riso alla tristezza e dalla gioia alla malinconia cupa?

Non occorreva che ella cercasse tanto: la risposta era pronta, evidente e terribile. Il turbamento del suo spirito e l’arrivo di Noris coincidevano. Dunque?

Implacabile nella conclusione della diagnosi del suo male come lo era stata nella indagine, ella si disse:

— Corro pericolo di amarlo.

Che il male fosse già avanzato e irreparabile, ella non sospettò neppure. Come una minaccia le appaiava, non come un fatto. Qualcosa stava per prendere il predominio del suo «io» che non era la sua volontà e non era il suo orgoglio. Bisognava correre al riparo. Come? in qual modo? dov’era l’antidoto a quel male nuovo che ella aveva disprezzato sempre, del quale fermamente sperava di non dover restare vittima mai?

— Fuggire, — pensò.

Non solo partire da New-York, sottrarsi all’apoteosi che esaltava sempre più nel suo cervello l’immagine di Ettore Noris, ma andarsene lontana egualmente e dall’America e dall’Italia, a Parigi, a Pietroburgo, a Vienna, nell’India. L’idea concepita un tempo, molti anni addietro, di un viaggio nell’India, le ritornò.

Andarsene laggiù, bisognava: mettere due mari