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CAPO XXII. 157

l’alto sacerdozio. Il satirico Lucilio, familiare di Lelio e di Scipione, già poteva impunemente rappresentare gli dei maggiori sedenti in concilio deridendo la dabbenaggine de’ timorati che dan loro il titolo di padri1. Così per altri frammenti di Lucilio, d’Ennio e di Pacuvio, vediamo parimente scherniti con dure e pungenti parole non tanto auguri, aruspici e indovini, quanto i superstiziosi. In teatro si facevano grasse risa pubblicamente degli medesimi iddii che s’adoravano nei tempj. E senz’altro soggiugnere basta il solo detto di Catone, augure egli stesso e censore2, a mostrare qual si fosse universalmente il secolo che allevò Cesare e Cicerone.

Di tal maniera gli Etruschi, che sopra tutti gli altri avean disposto gli animi de’ Romani alla pietà, ed a quel profondo sentimento religioso, che, al dir di Polibio, aveva mantenuta in fiore la repubblica3, cedevano essi stessi in tutte cose sì all’efficacia dell’esempio, sì al natural fervore per cui la virtù dell’intelletto tanto fortemente il sospinge ad abbracciare opinioni novelle. Altri costumi religiosi s’introdussero così più generalmente per tutta Italia in sulle tracce della ridente mitologia dei Greci. Nè lo spirito moderato del politeismo s’opponeva all’ammissione di nuovi iddii e nuovi riti: anzi la tolleranza de’ maestri in di-

  1. Lucil. ap. Lactant. Div. inst. iv., idem. i. 22.
  2. Mirari se, ajebat, quod non rideret haruspex, haruspicem cum vidisset. Cicer. de Div. ii. 12., de nat. Deor. i. 26.
  3. Polyb. vi. 3.