Pagina:Storia della decadenza dei costumi delle scienze e della lingua dei romani II.djvu/106

Da Wikisource.
102

di Giove, d’Apollo, e d’altre aotiche divinità Greche, e Romane, e de’ loro divini oracoli mentre i vagabondi, e dapertutto sparsi ingannatori pronunziar faccvano sentenze ad ogni immagine, ad ogni pietra, a ogni altare e ad altre consimili inezie per pochi oboli1. A causa del crescente numero degli Dei, e de’ loro Sacerdoti, delle pubbliche, e segrete feste, ed altre azioni religiose disparvero sempre più tutte le giuste idee della natura della divinità, quelle del vero culto della medesima, e della vera virtù e pietà; e l’ignoranza, e la superstizione divennero tra i Greci, e i Romani come presso tutti gli altri popoli le più pericolose nemiche della virtù, e i più validi sostegni di quella medesima corruttela de’ costumi da’ cui erano esse state prodotte. I Greci, e i Romani consideravano è vero anche anticamente i loro Dei come altrettanti esseri vani, egoisti, parziali, e facili ad essere subornati, e corrotti ma non li credetter mai così consimili, o piuttosto uguali alle persone più deboli, e viziose conte nei tempi in cui essi erano al maggior segno divenuti tali. I contemporanei di Petronio, e di Seneca2 non supplicavano

  1. Lucian. l. c. III. 534.
  2. P. 146. 147. Petron. Io ne ho già riferito di sopra il passo a ciò relativo. Senec. Ep. 10. et. 41. et fragm. Senecae ap. Aug. de Civitate Dei VI. c. 10.