Pagina:Storia della letteratura italiana I.djvu/221

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Finchè rimane nel particolare e nel personale, il linguaggio è acre, bilioso; hai Giovenale e Menzini. Il poeta, non che rimanere imprigionato in quello spettacolo, dee spiccarsene, porcisi al di sopra, allargare l’orizzonte, essere eloquente, voce di verità, espressione impersonale della coscienza. Certo, in quel canto de’ simoniaci vive immortale la vendetta dell’uomo ingannato che anticipa a Bonifazio l’inferno, e del ghibellino e del cristiano che vede nel papato temporale una pietra d’inciampo e di scandalo. Ma i sentimenti e le passioni personali se hanno ispirato il poeta e resa terribilmente ingegnosa la sua fantasia, non penetrano nella rappresentazione. Bisogna sapere la storia per indovinare i terribili incentivi dell’alta creazione. Ciò che qui senti, è la convinzione, la buona fede del poeta, la sincerità e l’impersonalità della sua collera: onde sgorga dal suo labbro eloquente tanta magnificenza d’immagini e di concetti. Prima Dante è in collera con Niccolò, pinto in pochi tratti vano, piccolo, col cervello e co’ sensi nel piede. E comincia col tu, e l’assale corpo a corpo, con ironia amara che si trasforma nel pugnale del sarcasmo:

E guarda ben la mal tolta moneta,
Ch’esser ti fece contro Carlo ardito.

Ma nel pendìo dell’ingiuria si contiene d’un tratto, passaggio meritamente ammirato; la piccola persona di Nicolò scomparisce; sottentra il voi, i papi, il papato; le idee guadagnano di ampiezza senza perdere di energia, e da ultimo la collera svanisce in una certa tristezza pura di ogni stizza; è deplorare, non è più un inveire:

Ahi Costantin, di quanto mal fu matre
Non la tua conversion, ma quella dote
Che da te prese il primo ricco patre!