Pagina:Storia della letteratura italiana I.djvu/246

Da Wikisource.

― 236 ―

stringente, implacabile nella sua logica. È una sola idea sotto varie forme, ostinata, insistente, che vuole da Dante una risposta. Sei uomo, hai la barba: come potesti preferire a me le cose fallaci della terra, o pargoletta, o altra vanità per sì breve uso? E quando Dante potè formare la voce, viene la risposta:

le presenti cose
Col falso lor piacer volser miei passi,
Tosto che il vostro viso si nascose.

Come si vede, è l’antica lotta tra il senso e la ragione che qui ha il suo termine; è la vita tragica dell’anima fra gli errori e le battaglie del senso che qui si scioglie in commedia, cioè in lieto fine, con la vittoria dello spirito. L’idea è più che trasparente, è manifestata direttamente nel suo linguaggio teologico. Ma la idea è calata nella realtà della vita e produce una vera scena drammatica, con tale fusione di terreno e di celeste, di passione e di ragione, di concreto e di astratto, che vi trovi la stoffa da cui dovea sorgere più tardi il dramma spagnuolo.

Dante pentito, tuffato nel fiume Lete, è menato a Beatrice dalle Virtù, sue ancelle:

Noi sem qui Ninfe; e in ciel semo stelle;
Pria che Beatrice discendesse al mondo,
Fummo ordinate a lei per sue ancelle.
Merrenti agli occhi suoi.

E Beatrice gli svela la sua faccia. Non è poesia che possa rendere quello che Dante vede, quello che sente:

O splendor di viva luce eterna,
Chi pallido si fece sotto l’ombra
Sì di Parnasso, e bevve in sua cisterna,
Che non paresse aver la mente ingombra,
Tentando a render te, qual tu paresti,