Pagina:Storia della letteratura italiana I.djvu/371

Da Wikisource.

― 361 ―

Tutte le profezie che disson sempre
Fra il sessanta e l’ottanta essere il mondo
Pieno di varii e fortunosi giorni,
Vidon che si dovean perder le tempre
Di ciascun valoroso e gire al fondo
E questo è quel che par che non soggiorni.
E s’egli è alcun che guardi,
Gli studii in forni vede già conversi.

Questa canzone di cui abbiamo citati alcuni brani è l’elogio funebre del trecento, pronunziato dal più candido e simpatico de’ suoi scrittori, l’ultimo trecentista. Sulla fine del secolo il vecchio burlone gitta uno sguardo malinconico indietro e gli si affaccia la grande figura di Dante, e l’Africa col suo alto poeta, e Giovan Boccacci non col suo festevole Decamerone, ma co’ dotti e magni volumi latini, de’ Tiri illustri, delle donne chiare, e il terzo.

Bucolica, il quarto monti e fiumi,
Il quinto degl’Iddii e lor costumi.

Oimè! Dante è morto. Morto è Boccacci. Petrarca muore. Chi rimane? E l’ultimo trecentista guarda intorno e risponde: Nessuno. Ricorda le infauste profezie, nunzie di sciagure fra il sessanta e l’ottanta, e gli pare venuto il finimondo. La forte semenza da cui uscirono i tre grandi e tanti altri dottissimi, teologi, filosofi, legisti, astrologi, è perita per sempre? o risurgerà dopo cinquecento anni, come fu della medicina? o non verrà prima il giudizio finale? Il mondo è dato all’abaco, e alle arti meccaniche: nuda è l’adorna scuola da tutte sue parti,

Non si trova fenestra
Che valor dentro chiuda.

La nuova generazione è tutta dietro alle mode e a’ sollazzi e al guadagno, e non cura virtù, e spregia le Muse,