Pagina:Storia della letteratura italiana II.djvu/109

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«Rinvolto in quella viltà traggo il cervello di muffa, e sfogo la malignità della sorte; sendo contento che mi calpesti per quella via, per vedere se la se ne vergognasse.» Vedilo tutto solo pel bosco con un Petrarca o con un Dante libertineggiare con lo spirito, fantasticare, abbandonato alle onde dell’immaginazione. Venuta la sera, «mi ritorno a casa ed entro nello scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste contadina piena di fango e di loto e mi metto abiti regali e curiali, e vestito decentemente entro nelle antiche corti degli antichi uomini; da’ quali ricevuto amorevolmente, mi pasco del cibo che solo è mio; e non mi vergogno di parlar con loro e domandarli delle loro azioni, ed essi per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte, tutto in loro mi trasferisco.» Quel trasferirsi in loro, quel libertineggiare sono frasi energiche di uno spirito contemplativo, estatico, entusiastico. Ci è una parentela tra Dante e Machiavelli. Ma è un Dante nato dopo Lorenzo de’ Medici, nutrito dello spirito del Boccaccio, che si beffa della Divina Commedia, e cerca la commedia in questo mondo. Nella sua utopia è visibile una esaltazione dello spirito, poetica e divinatrice. Ecco: il Principe leva la bandiera, grida: Fuori i barbari! a modo di Giulio. Il poeta è lì; assiste allo spettacolo della sua immaginazione: «quali porte se gli serrerebbero? quali popoli gli negherebbero l’ubbidienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale italiano gli negherebbe l’ossequio?» E finisce co’ versi del Petrarca,

Virtù contra furore
Prenderà l’armi, e fia il combatter corto:
Chè l’antico valore
Negl’italici cor non è ancor morto.

 De Sanctis ― Lett. Ital. Vol. II 7