Pagina:Storia della letteratura italiana II.djvu/21

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ciale, e poco studiato, e abborracciato nei momenti più interessanti. L’autore vi mostra un’attitudine più a narrare, ad esporre, a descrivere, che a drammatizzare. Che uomo sia maestro Iachelino, è benissimo esposto in un monologo di Nibbio; ma quando lo si vede in azione, lo si trova noioso, insipido, grossolano, molto al di sotto dell’aspettazione.

Ludovico era di coltura al di sotto de’ tanti dotti di quel tempo, ed anche di alcuni della corte. Il cardinale Ippolito pregiava assai meno i poeti, gente oziosa, che i suoi staffieri e camerieri, e volendo trarre un utile dal nostro poeta, ne fece un cavallaro, mandandolo qua e là in suo servigio. Ludovico, ricordandosi la grande amicizia di Leone X, quando era proscritto con la sua famiglia da Firenze, vistolo Papa, andò a lui pieno di speranza, e non ne cavò altro che belle parole. Fu anche in Firenze per commissione della corte ferrarese, e la profonda impressione fattagli da quella vista si rivela in una elegia scritta in quell’occasione:

A veder pien di tante ville i colli
Par che il terren ve le germogli, come
Vermene germogliar suole e rampolli.
Se dentro un mur, sotto un medesmo nome,
Fosser raccolti i tuoi palazzi sparsi,
Non ti sarian da pareggiar due Rome

Inviato governatore in Garfagnana, alza le strida, perchè il Cardinale lo abbia tolto a’ dolci studi e a’ cari amici e spintolo in quel rincrescevole laberinto. Da ultimo il Cardinale volea trarselo appresso in Ungheria, e qui il nostro poeta perde le staffe e dichiara che in Ungheria non vuole andare. Lodare il Cardinale in versi, sta bene; ma far da comparsa nel suo corteggio, questo no:

 Io stando qui, farò con chiara tromba