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La scossa però fu tremenda, e le restrizioni imposte alla banca finirono per paralizzare le operazioni commerciali, perchè i nogozianti non potendo più contare sul suo aiuto, trovaronsi costretti di reggersi co’ propri mezzi. Ciò non ostante, a lode del vero e ad onore della onestà dei Romani, diciamo che le accettazioni per la fine di marzo ad onta della crisi terribilissima che venne a colpire il commercio e la banca, e senza ricorrere, come volevasi da parecchi, ad alcuna proroga della scadenza delle cambiali, vennero rispettate dai negozianti romani. Noi non sappiamo quali sacrifici dovesser subire. Questo sì sappiamo, che le cambiali venner tutte pagate.

Proseguirono però le accuse e le recriminazioni contro la banca; e siccome il banchiere Valentini, come già dicemmo, erasi ritirato dagli affari appunto nel momento del massimo scompiglio, fu preso di mira dai sussurroni di allora, e venne accusato di essere stato una delle cause del timor panico che invase i cittadini romani. Accrebbe queste dicerie un articolo del fratello monsignore Giovan Domenico, inserito nel Contemporaneo e nella Pallade,1 col quale si diceva che esso, non facendo più parte della ditta di banco, era estraneo alle cause che avean provocato la crisi dei biglietti.

Rispose il 14 il fratello cavalier Gioacchino, dichiarando che il fratello monsignore non aveva capito abbastanza il subbietto di cui trattava. In pari tempo cercava di giustificare la sua condotta, protestando del suo attaccamento alle nuove istituzioni accordate dall’adorato sovrano l’immortale Pio IX, pronto sempre al suo dovere di secondarle, come subito concorse ancora alle sovvenzioni per gli artisti, pel mobilizzamento delle truppe ed altro.2

Quanto alle cause della diffidenza suscitatasi contro la banca ci sembra che, prescindendo dalla malevolenza in

  1. Vedi la Pallade del 12 aprile 1848.
  2. Vedi la Pallade del 15 aprile 1848, quarta pagina. — Vedi il Contemporaneo del 15 pag. 178.