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UN CONTRATTO

N

on ho mai capito bene come io sia arrivato alla mia inerzia attuale, io che durante la guerra ero considerato in città come un uomo molto operoso. C’è mio nipote Carlo che consultai anche su questo punto che pure anch’esso riflette sulla mia salute, e mi disse che facevo bene di stare tranquillo e che avrei ripreso il mio lavoro alla prossima guerra mondiale.

Quel biricchino ne indovina parecchie in quel suo gergo triestino e argentino. È vero la mia attività era stata quella della guerra e venuta la pace, non sapevo piú movermi. Proprio come un molino a vento quando l’aria non si move.

Cerco di ricordare: Magari mi fossi fermato prima, ma io non m’ero accorto dell’immenso rivolgimento. Per le vie acclamavo alle truppe italiane e sapevo che la mia città finalmente usciva da una specie di medioevo. Poi andavo al mio ufficio e trattavo gli affari come se fuori ci fossero ancora le truppe austriache e l’inedia austriaca. E ricordo ancora: Quando le comunicazioni con l’Italia si ristabilirono io ne approfittai per scrivere una bella lettera al vecchio Olivi che aveva passata la guerra a Pisa. Era una lettera proprio innocente perché dalla stessa traspariva la mia convinzione che le cose a guerra finita sarebbero continuate come se la guerra fosse continuata. Gli scrivevo che il destino aveva voluto ciò che il mio povero padre aveva escluso cioè che divenissi il padrone dei miei affari. Gli esponevo la florida posizione a cui avevo portato la casa nostra, i tanti affari che avevo fatti e gli presentavo anche un computo dei denari guadagnati. Tutto ciò con grande serenità e senza vanteria. Non occorrevano parole: Bastavano i fatti per farlo schiattare dalla bile. Infatti schiattò. Quando pochi giorni dopo appresi ch’era morto pensai che non avesse saputo sopportare la mia lettera. Invece era morto di grippe. Nella lettera seccamente io gli avevo propo-