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Giovanni m’accolse con un bel saluto gridato, che mi fece bene, e m’invitò di prender posto su una poltrona addossata alla parete di faccia al suo tavolo.

— Cinque minuti! Sono subito con lei! — E subito dopo: — Ma lei zoppica?

Arrossii! Ero però in vena d’improvvisazione. Gli dissi ch’ero scivolato mentre uscivo da caffè, e designai proprio il caffè ove m’era capitato quell’accidente. Temetti ch’egli potesse attribuire la mia tombola ad annebbiamento della mente per alcool, e ridendo aggiunsi il particolare che quando caddi mi trovavo in compagnia di una persona afflitta da reumatismi e che zoppicava.

Un impiegato e due facchini si trovavano in piedi accanto al tavolo di Giovanni. Doveva essersi verificato qualche disordine in una consegna di merci e Giovanni aveva uno di quei suoi interventi ruvidi nel funzionamento del suo magazzino del quale egli raramente si occupava volendo avere la mente libera per fare — come diceva lui — solo quello che nessun altro avrebbe potuto fare in vece sua. Urlava più del consueto come se avesse voluto incidere nelle orecchie dei suoi dipendenti le sue disposizioni. Credo si trattasse di stabilire la forma in cui dovevano svolgersi i rapporti fra l’ufficio e il magazzino.

— Questa carta — urlava Giovanni passando dalla mano destra alla sinistra una carta ch’egli aveva strappata da un libro, — sarà firmata da te e l’impiegato che la riceverà te ne darà una identica firmata da lui.

Fissava in faccia i suoi interlocutori ora traverso gli occhiali ed ora al disopra di essi e concluse con un altro urlo:

— Avete capito?