Pagina:Svevo - La coscienza di Zeno, Milano 1930.djvu/334

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sforzo per illudermi che quella via potesse rimanere almeno segnata. Dissi alla vecchia, prima di andarmene, che poteva avvenire che di lì a qualche tempo essa fosse di altro umore. La pregavo allora di voler ricordarsi di me.

Uscendo da quella casa ero pieno di sdegno e di rancore, proprio come se fossi stato maltrattato quando m’accingevo ad una buona azione. Quella vecchia m’aveva proprio offeso con quel suo scoppio di riso. Lo sentivo risonare ancora nelle orecchie e significava non solo l’irrisione alla mia ultima proposta.

Non volli andare da Augusta in quello stato. Prevedevo il mio destino. Se fossi andato da lei, avrei finito col maltrattarla ed essa si sarebbe vendicata con quel suo grande pallore che mi faceva tanto male. Preferii di camminare le vie con un passo ritmico che avrebbe potuto avviare ad un poco d’ordine il mio animo. E infatti l’ordine venne! Cessai di lagnarmi del mio destino e vidi me stesso come se una grande luce m’avesse proiettato intero sul selciato che guardavo. Io non domandavo Carla, io volevo il suo abbraccio e preferibilmente il suo ultimo abbraccio. Una cosa ridicola! Mi ficcai i denti nelle labbra per gettare il dolore, cioè un poco di serietà, sulla mia ridicola immagine. Sapevo tutto di me stesso ed era imperdonabile che soffrissi tanto perchè mi veniva offerta una opportunità unica di svezzamento. Carla non c’era più proprio come tante volte l’avevo desiderato.

Con tale chiarezza nell’animo, quando poco dopo, in una via eccentrica della città, cui ero pervenuto senz’alcun proposito, una donna imbellettata mi fece un cenno, io corsi senz’esitazione a lei.