Pagina:Svevo - La coscienza di Zeno, Milano 1930.djvu/67

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dopo tanto sforzo. Camminai per qualche minuto per il viale, nel freddo, a capo scoperto, pestando irosamente i piedi nella neve alta. Non so però se tanta ira puerile fosse rivolta al dottore o non piuttosto a me stesso. Prima di tutto a me stesso, a me che avevo voluto morto mio padre e che non avevo osato dirlo. Il mio silenzio convertiva quel mio desiderio ispirato dal più puro affetto filiale, in un vero delitto che mi pesava orrendamente.

L’ammalato dormiva sempre. Solo disse due parole che io non intesi, ma nel più calmo tono di conversazione, stranissimo perchè interruppe il suo respiro sempre frequentissimo tanto lontano da ogni calma. S’avvicinava alla coscienza e alla disperazione?

Maria era ora seduta accanto al letto assieme all’infermiere. Costui m’ispirò fiducia e mi dispiacque solo per certa sua coscienziosità esagerata. Si oppose alla proposta di Maria di far prendere all’ammalato un cucchiaino di brodo ch’essa credeva un buon farmaco. Ma il medico non aveva parlato di brodo e l’infermiere volle si attendesse il suo ritorno per decidere un’azione tanto importante. Parlò imperioso più di quanto la cosa meritasse. La povera Maria non insistette ed io neppure. Ebbi però un’altra smorfia di disgusto.

M’indussero a coricarmi perchè avrei dovuto passare la notte con l’infermiere ad assistere l’ammalato presso il quale bastava fossimo in due; uno poteva riposare sul sofà. Mi coricai e m’addormentai subito, con completa, gradevole perdita della coscienza e — ne son sicuro — non interrotta, da alcun barlume di sogno.

Invece la notte scorsa, dopo di aver passata parte della giornata di ieri a raccogliere questi miei ricordi,