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Purtroppo debbo confessare che al letto di morte di mio padre io albergai nell’animo un grande rancore che stranamente s’avvinse al mio dolore e lo falsificò. Questo rancore era dedicato prima di tutto al Coprosich ed era aumentato dal mio sforzo di celarglielo. Ne avevo poi anche con me stesso che non sapevo riprendere la discussione col dottore per dirgli chiaramente ch’io non davo un fico secco per la sua scienza e che auguravo a mio padre la morte pur di risparmiargli il dolore.

Anche con l’ammalato finii coll’averne. Chi ha provato di restare per giorni e settimane accanto ad un ammalato inquieto, essendo inadatto a fungere da infermiere, e perciò spettatore passivo di tutto ciò che gli altri fanno, m’intenderà. Io poi avrei avuto bisogno di un grande riposo per chiarire il mio animo e anche regolare e forse assaporare il mio dolore per mio padre e per me. Invece dovevo ora lottare per fargli ingoiare la medicina ed ora per impedirgli di uscire dalla stanza. La lotta produce sempre del rancore.

Una sera Carlo, l’infermiere, mi chiamò per farmi constatare in mio padre un nuovo progresso. Corsi col cuore in tumulto all’idea che il vecchio potesse accorgersi della propria malattia e rimproverarmela.

Mio padre era in mezzo alla stanza in piedi, vestito della sola biancheria, con in testa il suo berretto da notte di seta rossa. Benchè l’affanno fosse sempre fortissimo, egli diceva di tempo in tempo qualche breve parola assennata. Quand’io entrai, egli disse a Carlo:

— Apri!

Voleva che si aprisse la finestra. Carlo rispose che non poteva farlo causa il grande freddo. E mio padre