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Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 1.djvu/178

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LIBRO TERZO 171


LXVII. Accusarono Silano ancora, Gellio Publicola, questor suo, e Marco Paconio Legato. Crudele e rapace fu egli; ma gli eran contro più cose, ricolose ad ogni innocente: nimicato da tanti senatori, accusato da’ maggiori oratori di tutta l’Asia, solo a rispondere; senza rettorica, in causa propria, da fare smarrire ogni facondia. E Tiberio lo conficcava con ma’ visi, boci strane, domande spesse, da non potersene schermir, nè difendere; anzi spesso bisognava confessarle, acciò non avesse mal domandato. E per potergli contro collare i servi suoi, il fattor pubblico gli comperò. E perchè parente niuno l’aiutassero, gli fecero casi di stato, che non se ne può favellare. Silano adunque chiedeo tempo pochi dì; poi lasciò la difesa, e ardì scrivere a Tiberio, pugnendolo, e raccomandandosi insieme.

LXVIII. Egli per mostrare con esempi, che a Silano voleva fare il dovere, fece leggere un processo d’Augusto, con la sentenza del senato, contr’a Uoleso Messala, pur d’Asia viceconsolo. Poi voltosi a L. Pisone, disse: „Di’ su.„ Esso fatto lungo preambolo della gran clemenza di Cesare disse: „Confinerei Silano, privato d’acqua e fuoco, nella Giara.„ Così gli altri; salvo, che Gneo Lentulo avvertì, che per essere Silano nato d’altra madre, i beni materni si scorporassero pe ’l figliuolo. Il che a Tiberio piacque. Cornelio Dolabella, con più

    E l’un’e l’altra parte avranno fame
    Di te; ma lungi fia dal becco l’erba

    e altri altrove di questi detti popolari. Io non mi posso astenere dalla sua imitazione in questa materia, grave sì, ma non sacra come la sua: la cui autorità ogni bassezza ha innalzata.