Pagina:Tartufari - Il miracolo, Roma, Romagna, 1909.djvu/175

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da Milano, scrisse, riscrisse, mandò lettere, mandò cartoline, riviste, giornali, tutto in pochi giorni. Era la sua voce disperata, che implorava il soccorso di una parola, che invocava forse un cenno d'invito a tornare. Vanna strappava i telegrammi, strappava le lettere e tremava ch'egli tornasse, odiandolo per il male che le faceva. Ma la successiva domenica, uscendo di casa per la prima volta dopo la partenza di Fritz Langen e recandosi al Duomo, vide socchiusa la porticina dei loro convegni, scorse fulgente nel sole un'aiuola del giardinetto fiorito, uno squillar trionfante di trilli giunse al suo orecchio, e le due stanzette, ora deserte, si abbellirono per lei, nel rimpianto, di tutte le delizie sparite.

Dalla soglia del giardinetto suonò precisa la cara voce ben cognita:

— Monna Vanna, monna Vanna!

Ahimè! Ahimè! la cara voce le saliva dall'anima, e sull'anima le ricadde col peso e il fragore di tutto un passato che crolla. Le mancava il respiro, le mancava la vita! Nell'istinto bruto di chi si annega e vuole salvarsi, ella si aggrappò alla decisione di telegrafare a Fritz Langen. Oh! rivederlo ancora fra le aiuole di quel giardino, udirsi ancora chiamar da lui «Monna Vanna, monna Vanna» e poi l'universo andasse in cenere! Interrogò l'orologio, era tardi.

Recandosi al telegrafo subito avrebbe perduta la santa messa: telegraferebbe uscendo di chiesa, e il cuore le martellava per la gioia al pensiero