Pagina:Tartufari - Il miracolo, Roma, Romagna, 1909.djvu/177

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si sentiva ghiacciar la cute se la fiammella, spegnendosi, mandava un troppo lungo cigolìo, se le stile dell'olio, invece di salire a galla tutte a un tempo, s'indugiavano pigre entro il volume dell'acqua.

— Oh! lo stregone, lo stregone! - diceva Palmina, come fra sè - egli ha fatto il malocchio alla mia signora e adesso ride in una città lontana.

Tali parole misteriose di Palmina evocavano davanti agli occhi di Vanna la visione di strani uccelli dai lunghi becchi, dalle zampe sottili, gravi, a somiglianza di filosofi gravi, allineati sulle sporgenze marmoree di una chiesa, che forse era un tempio d'eresia.

Non osava parlare di tutto ciò a monsignore; egli, certo, l'avrebbe redarguita, dicendole che non bisogna confondere la religione con la superstizione, mentre Vanna, per quanto ci riflettesse, non riusciva a stabilire dove finisce la prima, dove l'altra comincia. E intanto non si accostava da mesi al tribunale della penitenza. Come trovare il coraggio di esporre a monsignore, in confessione, la storia del suo peccato? Egli, il padre spirituale, avrebbe dovuto sollecitarla a riconciliarsi con Dio, avrebbe dovuto obbligarla con la sua autorità a rendersi monda, leggera, dopo avere deposto il fardello delle sue colpe!

Monsignore invece non parlava, attendendo forse che la grazia le toccasse il cuore, e difatti in un pomeriggio piovoso della fine di autunno,