Pagina:Tartufari - Il miracolo, Roma, Romagna, 1909.djvu/228

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Ermanno taceva accigliato. Quando in sua presenza sorgevano tali problemi egli diventava ostile, circondandosi di circospezione. Contro sè o contro gli altri? Ermanno non avrebbe saputo dire. Egli non era più il bimbo ingenuo, che alle tombe di Settecamini si domandava come mai, prima di Cristo, la gente mangiasse e si scuoiassero buoi. Ermanno sapeva misurare, adesso, la vastità del tempo; sapeva di civiltà fiorenti e scomparse, di rovine ciclopiche sepolte sotto la terra, di vecchi papiri tornati in luce, e la storia anche per lui aveva echi di suoni spenti, pallidi riflessi di soli già tramontati. Ma era avvenuto questo caso strano: il suo professore di storia antica, un dottissimo orientalista, esponeva in classe i fatti con rigidità di metodi, dietro la scorta di minuziose ricerche e coscienziose ricostruzioni. I fatti si aggruppavano per virtù propria, si cementavano tra loro in grazia della loro logica e si foggiavano in piramide salda; poi, dopo avere così lasciato che si edificassero, il medesimo professore riprendeva i medesimi fatti, e con parole prolissamente oscure voleva piegarli alle esigenze della sua filosofia di sacerdote cristiano. In genere i chierici studenti prendevano appunti e mischiavano il tutto senza discutere; ma Ermanno soffriva, non riuscendo a mettere d'accordo la prima e la seconda parte della lezione, onde sovente, con orrore, sorprendeva sè stesso a ricercare nei fatti una logica assai diversa da quella che il professore inculcava con tanto zelo