Pagina:Tartufari - Roveto ardente, Roma, Roux, 1905.djvu/291

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darsi era così insostenibile, che distolsero gli occhi e li fissarono in alto.

Un lembo di cielo appariva, limitato per ogni parte dalle rocce circolari; la verzura, nutrita dalla vicinanza perenne delle acque, rivestiva le più piccole screpolature della conca; la grande cascata spumeggiava lieve, e abbagliava per il suo candore luminoso.

— Andiamo via, qua fa molto freddo e io sono intirizzita — disse Flora, stringendosi tutta in sè.

— O poverina! — esclamò il Rosemberg, prendendole una mano, poi l'altra e tenendo Flora discosta per ammirarla meglio. — Come sono ghiaccio queste piccole manine! — e cominciò a baciargliele cautamente, con baci leggeri, stri sciando la punta delle labbra sull'epidermide tra sparente dei polsi, dove l'involucro della cute era così delicato da rendere visibile il diramarsi sinuoso delle vene azzurrine.

Flora, immobile, col viso pallido a guisa d'in tatta neve, somigliava a una statua, collocata a segnare il limite fra l'orrido buio della grotta e il verde smeraldino della campagna fulgente nel sole. Volle risalire, e allorché si ritrovò nel viot tolo ombreggiato di rami e che si vide seduta di nuovo comodamente in groppa a Piccione, divenne gaia di una gaiezza puerile.

Tutto quel verde, tutto quell'instancabile la vorìo di vita che la vegetazione faceva nelle più impercettibili ripiegature del terreno, quelle piante che si sovrapponevano, quei rami che si cerca vano da un capo all'altro del viottolo per allac ciarsi in tenaci abbracciamenti, quelle foglie che