Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo I, Classici italiani, 1822, I.djvu/433

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38\ PARTE TERZA ardore e avidità per lo studio. Un uom privato che tanti libri avesse scritti, quanti Cicerone, sarebbe oggetto di maraviglia. Or che direm noi di un uomo il quale non vi era causa di qualche momento, ch’ei non fosse pregato e costretto quasi a trattare, non pubblico affare a cui non avesse parte, che tutte sostenne le più onorevoli e più gravose cariche della Repubblica, che trovossi in circostanze di tempi difficili sopra modo e pericolosi, ch’era in continuo commercio di lettere non solo con moltissimi dei suoi amici, ma co’ più ragguardevoli personaggi del suo secolo, ch’ebbe ancor la sventura di dovere cedere per alcun tempo all’invidia de’ suoi nemici e allontanarsi da Roma? XII. Un sì continuo e sì sollecito studio congiunto a un vivace, penetrante, fecondissimo ingegno, non è maraviglia che formasse in Cicerone l’oratore il più perfetto forse che mai sorgesse. A giudicar dell’eloquenza di Cicerone io non voglio che ad esame si chiamino le sue orazioni. Benchè agli uomini di miglior senno sian sempre parute di una forza e di un’arte maravigliosa, come però diversi sono i gusti degli uomini, ciò che avviene nelle cose di cui son giudici i sensi, accade ancora in quelle di cui decide lo spirito e l’ingegno; cioè che tal cosa, la quale da alcuni è sommamente pregiata, dispiaccia ad altri i quali pur si lusingano di aver buon gusto. Lasciamo dunque in disparte il pregio intrinseco dell’eloquenza di Cicerone, e miriam solamente gli effetti maravigliosi ch’essa produsse; e tra questi medesimi