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LIBRO TERZO 435

calamistris inurere; sanos quidem homines a scribendo deterruit: nihil enim est in historia pura et illustri brevitate dulcius. Dopo il qual elogio, qualunque cosa dicasi Pollione, il quale, come già si è detto, tacciava di negligenza i Commentarii di Cesare, egli soffrirà in pace che a Cicerone più che a lui prestiam fede. Forse più giustamente egli accusò Cesare di avere in alcune cose alterata la verità: poichè non è inverisimile che l’amor della gloria gli reggesse talvolta la penna, e lo inducesse o a dissimulare, o a rivestire di più favorevol colore alcune cose. E il Vossio alcuni passi in particolare ha osservati De Hist. lat. 1.1, c. 13) ne’ quali Cesare di qualche dissimulazione ha usato. Ma in ciò eh’è eleganza e proprietà di stile, egli è certo che non vi ha forse autore che a lui si possa paragonare, detto per ciò a ragione da Tacito Summus auctorum (De Morib. German, c. 28). Ciò ch’è più a stupire, si è ch’essi, per detto di Irzio che ne fu testimonio, furono da lui scritti con somma fretta. Del che, dic’egli (praef. ad l. 8 Bell. Gall.), noi più che ogni altro abbiamo a maravigliarci. Perciochè gli altri veggono solo quanto bene ed esattamente egli abbia scritto; noi abbiamo ancora veduto con qual facilità e con qual prestezza egli scrivesse. Dopo ciò, io non posso rammentar senza stomaco la prodigiosa sciocchezza di qualche moderno scrittore rammentato dal Fabricio e dal Vossio, che de’ Commentarii di Cesare volle fare autore Svetonio. Di un’altra opera intorno alla sua propria vita scritta dallo stesso Cesare, di qualche dubbioso