Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo I, Classici italiani, 1822, I.djvu/496

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LIBRO TERZO 447 parlando Pollione; e il Morhofio una dissertazione; o anzi un ampio trattato ha pubblicato su questo argomento, in cui lungamente esamina qual fosse il vizio che a Livio opponevasi. Ma a me non pare nè che di sì lunga dissertazione vi avesse bisogno, nè che possa rimaner dubbio sul senso della parola da Pollione usata. Leggansi i due luoghi in cui Quintiliano fa menzione di un tal detto (l. 1, c. 5; e l. 8, c. 1), e vedrassi che egli ivi ragiona dello studio che usar dee un colto scrittore a sfuggire ogni parola ed ogni espressione che sappia dello straniero. Dal che è manifesto che Pollione riprender voleva in Livio certe espressioni padovane più che romane 5 come farebbe al presente un Toscano, il quale leggendo un libro di scrittore lombardo, e trovandovi parole e frasi che in Toscana non sono usate, dicesse che quello stile sa di lombardo. Noi non possiamo ora conoscere quali siano queste parole che da Pollione dicevansi padovane j e non si posson leggere senza risa le gravissime decisioni che alcuni moderni Aristarchi autorevolmente han pronunciato, diffinendo questa e quell’altra voce di Livio esser quella.che da Pollione fu ripresa; quasi che nella perdita che abbiamo fatta della più parte degli scrittori latini, possiamo determinare qual voci siano latine, quali nol siano. Io concederò bensì che non dobbiamo usare se non di quelle che troviamo ne’ buoni autori che ci sono rimasti; perciocchè altrimenti non vi sarebbe regola e legge alcuna di scrivere. Ma il non trovarsi in essi una cotal voce, o una coiai locuzione3