questa sua sventura ne’ versi sopraccitati a
Claudia sua moglie, ove a que’ che abbiam
già recati, soggiugne questi:
Tu cum Capitolia nostrae
inficiata lyrae , saevum ingratumque dolebas
Mecum victa Jovem.
E nel già mentovato epicedio di suo padre
dichiara che parte della sua Tebaide era quella
che in tal occasione aveva ei recitata:
Nam quod me mixta quercus non pressit oliva,
Et fugit speratus honos, cum dulce, parentis
Invida Tarpeji, caneret te nostra magistro
Thebais, ec.
Il P. Petavio (De Doctr. Temp. l. 2, c. 21)
in tutt’altro senso vuole che spiegare si debbano questi ultimi versi di Stazio, e impugna
lo Scaligero che avea recata la spiegazione da
noi pure adottata; ma parmi che solo sforzatamente si possano essi rivolgere ad altro senso.
Questa Tebaide nondimeno udivasi comunemente in Roma con sì grande piacere, che
allor quando Stazio invitava i Romani ad udirne
parte, vi si accorreva in gran folla. Così ci
assicura Giovenale che ancor viveva (sat. 7,
v. 82, ec.):
Curri tur ad vocem jucundam , et carmen amicae
Thebaidos, laetam fecit cum Statius urbem ,
Promisitque diem: tantaque libidine vulgi
Audi tur.
Ma soggiugne insieme che, poichè colla bellezza de’ suoi versi avea riempiuto di clamori
Tiraboschi. Voi. II. 8