ci vengono; nè però ci si fermano; ma innanzi al fine altri di nascosto e segretamente,
altri apertamente e francamente sen vanno. Così
Plinio si duole del poco conto in che aveansi
allora i poeti; del che però io non so se i
Romani se n’abbino ad incolpare, o i poeti
medesimi; perciocchè, come dagli addotti passi
di Giovenale si raccoglie, questi per la più
parte eran tali, che chi ricusava di udirli , di
lode poteva parer degno anzichè di biasimo.
Ma o buoni, o cattivi fossero i poeti, la stagion loro era passata. Anche quelli tra essi
che godevano di miglior fama, da’ loro versi
invano avrebbono atteso di che campare. Già
abbiam veduto che Stazio , benchè riscotesse
gran plausi, era nondimeno costretto a comporre azioni teatrali, e a venderle agli attori,
se volea trovar di che vivere. Dove è ora ,
esclama Giovenale (sat. 7, v. 94), un Mecenate, o un altro uom liberale inverso i poeti?
A que’ tempi gli uomini avean premio uguale
all’ingegno loro; ma ora essi si rimangon digiuni , e anche nelle più liete feste de’ Saturnali costretti sono a starsene senza vino. Ma
come tanti poeti, se la poesia giacevasi così
sprezzata? Già ne abbiam recata poc1 anzi la
vera ragione. La liberalità di Augusto e di Mecenate verso i poeti avea persuaso i Romani
che un de’ mezzi più sicuri a viver felice era
il poetare. Quindi da ogni palmo di terra, per
così dire, spicciavan poeti. Il non vedersi sulle
prime ben ricevuti non bastava a scoraggiarli:
si lusingavano che il loro merito sarebbe un
giorno riconosciuto e premiato. Continuarono