rarione arrechino essi di tal sentimento, esso
non regge certamente alle prove. Il celebre P. Montfaucon parla di un codice (praef.
ad Paleogr. graec.) di Curzio della Biblioteca
Colbertina scritto almeno da ottocento anni.
Un altro di somigliante antichità rammentasi
dal Wangeseilio, mostrato a lui dal famoso Magliabecchi (Pera libror, juven. t. 4, p- 178).
E, ciò che è ancora di maggior forza, della Storia di Q. Curzio fanno menzione Giovanni di
Sarisbery (l. 8 Polycr. c. 18), e il card. Jacopo di Vitry (Hist. Orient. l. 3), autori del XII
e del xiii secolo, oltre altri che rammentansi
dal Fabricio (Bibl. lat. l. 2, c. 17). Egli è certo
dunque che prima d’allora visse lo scrittore di
questa Storia; e lo stil colto ed elegante di
cui egli usa , ci fa certa fede eli1 egli scriveva
in alcuno de’ buoni secoli della latinità. Intorno
a che veggasi il Bayle che assai lungamente
ne ha ragionato (Dici. ari. « Quinte Curce »).
VII. Convien dunque vedere quale tra tutte
le opinioni di sopra accennate sia quella che
possa dirsi meglio fondata. Un’attenta riflessione su alcune delle allegate parole ci aprirà
forse la strada a conoscerlo. Egli è, a mio parere, evidente che Curzio parla qui di una notte
che per poco non era stata l’estrema per l’impero romano: noctis, quam pene supremam
habuimus; di una notte in cui essendo l’impero privo di capo, erano perciò le membra,
cioè i sudditi, agitati da intestine discordie:
quum sine suo capite discordia membra trepidarent; di una notte finalmente in cui l’apparire del nuovo principe eletto avea richiamata