Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo II, Classici italiani, 1823, II.djvu/312

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grandissimi encomii della liberalità, ma non mi dà alcuna prova ch’egli l’esercitasse. XIV. Ma ciò che più d’ogni cosa spiacemi in Seneca, si è un cotal fasto che in tutti i suoi libri s’incontra, per cui sembra che se stesso egli voglia proporre a norma e ad esemplare perfetto d’ogni virtù. Quintiliano gli rimprovera (l. 10, c. 1) il parlare ch’ei facea con disprezzo degli antichi illustri scrittori, affinchè la sua maniera di scrivere fosse tenuta in maggior pregio; e Svetonio racconta (in Ner. c. 5a) eli egli tenne lontano Nerone dal leggere i più celebri oratori, perchè a lui solo ei volgesse tutta l’ammirazione; ambizione degna veramente di un uomo che sì spesso ci raccomanda di combattere i propri affetti, e di soggiogare le ribellanti passioni. In tutti poi i suoi libri e nelle stesse sue Lettere a me par di vedere un uomo che, persuaso di esser nato riformatore dell’uman genere, prescrive imperiosamente le leggi, disprezza, deride, riprende, sempre in un cotal suo tuono altiero e orgoglioso che non è troppo opportuno ad insinuarsi nell’animo de’ leggitori. Aggiungasi il parlare ch’ei fa sovente di se medesimo, e il proporsi ad esempio degno d’essere imitato, talchè tutte le virtù eroiche che Giusto Lipsio ha trovate in Seneca, tutte le ha egli tratte dalla bocca di lui medesimo, cioè dalle cose che di se medesimo ei dice ne’ suoi scritti; e questo non è certo il più autentico testimonio che a prova delle virtù di alcuno si possa recare. La stessa sua morte ci somministra un nuovo argomento della sua alterigia; poichè se degna sembra di t