Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo II, Classici italiani, 1823, II.djvu/617

Da Wikisource.

58o LlllRO Libro 11 si è fatto cenno. Più ampiamente ancora , anzi con una eccessiva lunghezza, egli non molto dopo descrive (l. 30, c. 4) lo stato infelice in cui le lettere erano in Oriente a questi tempi medesimi, e il reo uso che dell’eloquenza e della giurisprudenza comunemente facevasi. Ma di ciò che ivi accadesse, non è mio intento di ragionare. Così tutte le leggi promulgate a promuover le scienze non giovan punto, quando il costume è guasto per tal maniera che gli uomini unicamente occupati de’ lor piaceri, poco, o nulla si curano degli studj e delle arti; e si può qui ancora applicare il detto del medesimo Ammian Marcellino, il quale nel passo sopraccitato parlando del libertinaggio romano dice che i delitti e le sozzure dissimulate per lungo tempo dalla negligenza de’ governanti eransi radicate per modo che il famoso cretese Epimenide non sarebbe stato valevole a ripurgarne Roma. Convien dir nondimeno che molto numero di forestieri venisse a questa città per motivo di studio, poichè non avrebbe Valentiniano promulgata la legge da noi poc’anzi recata, se l’occasione e.il bisogno non avesse richiesto; e vedrassi ciò ancora più chiaramente quando avremo a parlare de’ celebri professori d’eloquenza che vennero a Roma, e degli onori che vi riceverono. Ma anche nell’epoca precedente abbiamo osservato che maggior era il numero degli stranieri i quali per coltivare le scienze venivano a Roma, che non de’ Romani i quali nella lor patria stessa le coltivassero.