Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo II, Classici italiani, 1823, II.djvu/618

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QUARTO 58I XIII. A questi tempi medesimi par che appartenga un altro amaro rimprovero che lo stesso Ammian Marcellino fa a’ Romani intorno al niun conto che facevasi de’ buoni studj. Egli dopo aver detto (l. 14, c. 6), parlando pure dello stato di Roma al tempo in cui egli scriveva, che le case nelle quali mia voltasi coltivavan gli studj, risonavano allora del suono di molli stromenti, che a’ filosofi succeduti erano i musici, agli oratori i giocolieri, e che le biblioteche erano a guisa di sepolcri perpetuamente chiuse, così aggiugne: Finalmente a tale indegnità si è giunto perfino che costringendosi non ha molto per timore di carestia ad uscire precipitosamente di Roma tutti gli stranieri, i coltivatori delle belle arti ne sono stati, benchè fossero in piccol numero, immediatamente cacciati... ma a tre mila saltatrici co’ loro Cori e con altrettanti loro maestri non si è pur fatto motto. Ammiano scriveva, come vedremo, verso i tempi di Teodosio il Grande; e perciò di una cosa accaduta a’ tempi di Valentiniano poteva ragionare come di cosa di recente avvenuta. In fatti pare che di questo editto medesimo favelli Simmaco che fu prefetto di Roma l’anno 384, allora quando dice (l. 2, ep. 7): Noi temiamo la carestia, e perciò cacciamo coloro a cui Roma avea aperto liberalmente il seno; e supponiamo ancora che con tal mezzo venghiamo ad esser sicuri: ma questa sicurezza medesima quale odio delle provincie tutte accende contro di noi! Quindi questa potè appunto essere quella fame che fu in Roma a’ tempi di Graziano, cioè l’anno 383 in cui questo ottimo