Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo III, Classici italiani, 1823, III.djvu/234

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SECONDO 1^3 però confessare che di questa si adducono fondamenti meno improbabili, che delle altre. Quai sono essi? In primo luogo la lettera di S. Gregorio a S. Leandro da lui premessa a’ suoi Morali su Giobbe. In essa parlando egli del metodo che tenuto avea in que’ libri, e venendo a ragionar dello stile, così dice: Unde et ipsam artem loquendi, quam magisteria disciplinae exterioris insinuant, servare despexi. E!am sicut hujus quoque epistolae tenor enuntiat, non metacismi collisionem effugio, non barbarismi confusionem devito: situs motusque praepositionum casusque servare conte inno; quia indignum vehementer existimo, ut verba coelestis oraculi restringam sub regulis Donati. Non sembra egli questi un giurato nimico di tutte le leggi gramaticali, e un difensore zelantissimo della più rozza barbarie? Ma ci dica di grazia il Bruckero, il quale trionfa su questo passo (Hist crit. t. 3, p. 653). Ha egli lette le Opere di S. Gregorio? E se le ha lette, le trova egli di uno stil così barbaro, come pare che dopo un tal passo debba aspettarsi? Io non dirò certo che ei sia un nuovo Tullio; ma dirò francamente che lo stile di cui egli usa , non è punto più incolto di quel degli altri anche profani scrittori di questa età, che osserva al.par di loro le leggi gramaticali, che a tratto a tratto ancora egli ha una maestà e un’eloquenza di favellare degna di miglior secolo; e i passi che noi ne abbiamo nel precedente capo recati, ce ne fan certa pruova. Io non asserisco cosa di cui non si possa accertare ognuno co’ suoi propj occhi. Che vuol dunque egli dire