Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo III, Classici italiani, 1823, III.djvu/447

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386 LIBRO una tale molliplicità di leggi in Italia, che il fare che tutte fossero dimenticate e neglette colf assoggettar tutti mal grado loro alla legge medesima. Quindi è che nelle carte di questi tempi noi veggiam farsi menzione della nazion di coloro di cui in esse si tratta, e della legge che essi seguivano, e sì frequenti s’incontrano quelle formole: qui professus sum ex natione mea lege vivere Longobardorum, e somiglianti; rendendosi ciò necessario, perchè sapessero i giudici secondo qual legge dovea ognuno essere giudicato. III. La nazione non era però sempre sicuro indicio a conoscere la legge cui alcuno seguisse; perciocchè i servi doveano avere la legge comun col padrone, e le mogli ancor col marito; benchè si trovino alcuni esempj in cui vedesi il marito professar una legge, un’altra la moglie. Il Muratori osserva che gli ecclesiastici sì secolari come regolari, di qualunque nazione fossero, attenevansi alle leggi romane; ma egli stesso dimostra che ciò non era sempre costante; e convien dire perciò, che fosse questo un privilegio lor conceduto, di cui potessero essi bensì, ma non dovessero necessariamente usare. Alle pruove ch’egli ne reca, un’altra sene può aggiugnere tratta dall’antica Cronaca del monastero di Farfa da lui pubblicata; perciocchè in essa veggiamo che quel monastero anche verso il fine del x secolo seguiva negli atti giudiciali le leggi de’ Longobardi (Script. rer. ital. t. 2, pars 2, p. 503). IV. Oltre queste leggi particolari e proprie a cliiasclieduna nazione, altre ve ne avea generali e comuni a tutte, quelle cioè che da’ re d’Italia