Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo V, parte 2, Classici italiani, 1823, VI.djvu/172

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676 LIBRO osservato, e un certo Giovanni de’ Danti aretino, di cui dice l’ab. Mehus di aver veduta manoscritta una traduzione di un arabo geometra, fatta circa l’anno 1370 (Vita Ambr. camald. p. 155). Egli è ben vero che la filosofia d’Averroe, e la medicina di Avicenna e di altri scrittori arabi, avea ancora in questo secolo molti seguaci, e abbiamo udito.il dolersene che facea Francesco Petrarca. Ma i loro libri erano stati già comunemente tradotti in latino, e non facea bisogno di apprendere la lingua arabica per sapere ciò ch’essi insegnavano. Nella lingua ebraica parimente io non trovo chi fosse versato a questa età, oltre il legista Bartolo, di cui si è detto altrove, se non fosse quel Porchetto de’ Salvatici, genovese di patria e monaco certosino, che credesi vissuto al principio di questo secolo, di cui abbiamo alle stampe uif opera contro i Giudei (Oudin de script, eccl. t. 3,p. 736); perciocchè valendosi egli a confutarli de’ lor libri medesimi talmudistici e cabalistici , sembra che nol potesse fare senza intender la lingua in cui essi erano scritti. II. Assai più felice fu in questo secolo la sorte della lingua greca in Italia. L’ab. de Sade, parlando della cattedra di lingua greca data in Firenze l’anno 1360 a Leonzio Pilato, di che noi pure parleremo tra poco: Ecco, dice con gran sicurezza (Mém. pour la vie de Petr. t. 3,p. 626), la vera epoca del ritorno della lingua greca in Italia, ove ella era quasi interamente ignorata , checchè ne dica il P. Gradenigo nella sua lettera al Cardinal (Querini, in cui si fa a provare che questa lingua dopo t ix secolo è scnyjre