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Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) III.djvu/12

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LE SUPPLICI 9

quanto in Aristofane è esposto in forma paradossale e sarcastica, qui è affermato con serietà appassionata. «Come mai» — dice l’araldo —

          potrebbe il popolo,
          che guidare non sa neppure il proprio
          razïocinio, reggere lo stato?

Dice ancora:

          Malanno grande
          è per gli onesti, quando un uomo tristo
          e venuto dal nulla, acquista credito,
          e con le ciance sue suborna il popolo.

«L’arruffapopolo» — séguita —

          a ciance eccita il popolo,
          per proprio lucro, e qua e là lo volge
          Tutti miele, costor, tutti lusinghe
          son pria, che in danni poscia si convertono.
          E con nuove calunnie allor nascondono
          gli antichi falli, e alla giustizia sfuggono.

Ora, Tesèo ha un bel contraddire, a difesa della democrazia: gli spettatori sentivano che le parole dell’araldo tebano erano sacrosante, sentivano, come noi sentiamo, perché il tòno fa la musica, che esse sgorgavano dal cuore del poeta, e che questi le poneva in bocca ad un personaggio antipatico, per non prender di petto — non era Aristofane — l’ombrosa democrazia dominante. Se su questo punto permanesse un sol dubbio, dovrebbe svanire quando, non piú l’araldo dei Tebani, il nemico d’Atene, bensí l’araldo degli Argivi, narrando come Teseo, vinti i Tebani, trattenne i suoi soldati, che volevano saccheggiare Tebe, soggiungeva: