Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) IV.djvu/236

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IFIGENIA IN TAURIDE 233

come un leone, e tra le coste il ferro
vibrando, al fianco li fería, credendo
di respinger cosí le Dive Erinni:
sicché tutto di sangue il mar fioriva.
E allora, ognun di noi, come lo scempio
e la strage dei buoi vide, s’armò
e per chiamare i conterranei, die’
di fiato alle conchiglie: ché ben deboli
ci stimavamo, noi bifolchi, a fronte
dei due foresti vigorosi e giovani.
E fu grande, ben presto, il nostro numero.
Ora il foresto, superato ch’ebbe
l’accesso di follia, cadde, stillando
di sangue il mento. Noi, come a buon punto
lo vediamo cader, sotto a lanciargli
sassi, e vibrargli colpi. E il suo compagno
gli tergeva la bava, e lo assisteva,
e lo copriva col tessuto fitto
del peplo, e schermo gli facea dai colpi,
gli prodigava d’ogni cura il bene.
E l’altro, come dall’accesso fu
riavuto, balzò su, vide il flutto
dei nemici incombente, e la rovina
sopra loro imminente, e un grido alzò.
Dal lanciar sassi noi non sostavamo,
dall’incalzar chi di qua chi di là:
ed un appello udimmo allor terribile:
«Certo morremo; ma morremo, o Pílade,
da forti: impugna la tua spada e seguimi».
Al veder quelle due spade nemiche,
fuggimmo; e piene le rupestri valli
furon di noi; ma come uno fuggiva,
sopravvenivano altri a lapidarli,