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IFIGENIA IN TAURIDE 235

alla mia razza, allor che gente ellèna
in tua mano cadeva. Or che selvaggia
m'han resa i sogni ond’io penso che Oreste
piú la luce del sol non vegga, ostile,
quali che siate, voi mi troverete.
E vero è ben, lo intendo, amiche, il detto:
non ha pietà, chi dai malanni è oppresso,
per i piú sventurati. Oh, ma non alito
mai dal cielo spirò, tra le Simplègadi,
legno non giunse ch’Elena adducesse,
onde a morte io fui posta, e Menelao,
sí ch’io di lor mi vendicassi, e un’Àulide
a lor facessi qui trovare, in cambio
di quella dove i Dànai m’immolarono
al par d una giovenca, e vibrò il colpo
il padre che mi die’ vita. Ahi, non posso
quegli onori obliar, mai: quante volte
le mani al mento di mio padre io tesi,
alle ginocchia, e le abbracciai, dicendogli:
«Padre, che turpi nozze per me celebri!
La madre, or, mentre tu mi sgozzi, e tutte
le donne d’Argo, cantan gl’Imenèi,
tutta di flauti suona la magione,
ed io da te cado immolata. Achille
non era dunque, il figlio di Pelèo,
lo sposo a me promesso: era l’Averno.
A sanguinose nozze e con la frode
qui sovra il cocchio fui condotta». E il viso
dietro i leggeri veli io nascondevo;
e fra le braccia il fratel mio non strinsi,
ch’or piú non vive, e non baciai le labbra
della sorella, per ritegno: ch’io
del figlio di Pelèo movevo ai tetti.