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impressioni e ricordi di bayreuth 243


gli occorre, ed esaurirne inesorabilmente la situazione, costringendo la musica a dilungarsi in melopee forse un po’ faticose; la lingua che la necessità di scandere bene le sillabe, per la chiarezza della parola, rende ancor più aspra e per noi, gente latina, quasi rude; finalmente l’esecuzione che nella sua inappuntabilità meravigliosa è schiva d’entusiasmo e d’abbandono.

Ciascheduno degli esecutori deve concorrere in egual misura all’unità del tutto, fondendosi con giusto equilibrio nell’armonico insieme, la virtuosità dell’artista è bandita, la sua personalità annullata, il pubblico per lui non esiste.


Disdegnoso di qualsiasi effetto molle e plateale, Wagner ha messo su quelle esecuzioni un velo di fierezza, di dignità quasi superba. Chi ascolta deve avere una sottile intuizione del bello, senza che l’orchestra o il cantante glielo impongano coll’efficacia d’un esagerato accento. Questa specie di ritegno severo, questa sobrietà nell’eseguire, voluta, non derivata da difetto d’anima, sorprendono un poco, alla prima, poi convincono e s’impongono come una virtù essenziale di un’Arte aristocratica e grave, la quale, se impedisce qualche volta a certi gioielli musicali di risplendere in tutto il loro fulgore, di rivelare per intero il loro significato ad una data specie di pubblico, presta invece all’opera wagneriana la castità della bellezza immortale e diffonde su tutta la parte sua più umana un raggio affascinante d’idealità.

Nell’estate del 1896 Bayreuth celebrò solennemente colla riproduzione successiva di alcuni cicli della Trilogia, il ventesimo anniversario dell’inaugurazione del suo teatro. Il geniale poeta e altissimo musicista che in quel tempo aveva diretto egli stesso, con ardore giovanile, le prove e la messa in scena, non è più; il suo sguardo che vedeva tant’oltre nei misteri della bellezza, s’è spento in una terra alla bellezza sacra, ma molti fidi di allora, alcuni esecutori, lo stesso direttore Hans Richter hanno avuto la fortuna di prender parte e di contribuire alla festa artistica conservando con intelligente affetto la tradizione del loro venerato maestro.

Quattro giorni preziosi e memorabili questi in cui sì rappresenta in un prologo e tre parti l’Anello del Nibelungo in cui ci è dato assistere alla grande epopea ispirata dalla Saga scandinava [e Germanica!]

Più breve delle altre parti l’Oro del Reno, il Prologo, non è diviso da alcun intervallo ma si svolge di seguito, in quattro scene che contengono i rudimenti tipici di tutto il dramma e perciò le forme fondamentali dell’azione musicale. Gl’interpreti dei fattori del dramma, i primi leitmotive ai quali per necessità psicologica della teoria wagneriana, s’aggiungono nuovi temi a mano a mano ch’esso si spiega e le situazioni si complicano, mantenendo sempre intatta l’unità, portando alla fine la densità musicale ad una potenza prodigiosa, fanno pensare ad un fiume che partendo dalla sorgente e nutrendosi di continui affluenti, scorre sempre più maestoso e più ricco, nel suo prefisso cammino, finchè dilaga e si perde nell’immensità sublime del mare.

Le due battute tipiche che caratterizzano Donner, il dio del tuono, hanno risuonato più volte presso gli atrii, la gente s’è raccolta, il teatro è colmo, l’attesa intensa, un’omogenea oscurità, necessaria alla perfetta illusione scenica, è scesa sugli spettatori, con un senso di raccoglimento profondo. Il grande dramma comincia, il concetto su cui s’impernia è questo: La redenzione del mondo dalla servitù dell’egoismo; mercé la forza rinunziante dell’amore1.

E, dall’orchestra invisibile che Grétry un tempo aveva sognata, da quel golfo mistico ove ciascuna categoria d’istrumenti, gli ottoni, i legni, gli archi, le arpe, porta alla sonorità dell’insieme il valore centuplicato di tanti suoni fusi in un sol suono compatto e potente, ì primi accordi di tonica e quinta s’innalzano, annunziando qualchecosa di grande nella loro semplicità: è un’armonia grave ma serena che aumenta, incalza, s’insegue in tutte le tessiture sviluppandosi in un ritmo caratteristico e persistente nella placida tonalità di mi bemolle. Essa ci descrive il lento fluttuare dell’acqua del Reno, la quiete beata dell’elemento primitivo in cui tacquero sempre i desiderj, ove non è peranco sorto affanno di passione o di colpa, poi, a grado a grado il movimento ondeggiante delle mitiche fanciulle destinate alla custodia dell’oro.

S’apre la tela e sotto il velo vaporoso della luce azzurrina, una scena incantevole ci appare, il fondo o, per meglio dire, lo spaccato del Reno col suo letto irto di scogli e la luce dell’alba a fior d’acqua. E la limpida voce di Woglinda, una delle tre Ondine che nuotano lesgiadramente librate nell’azzurro, interrompe con una dolcissima frase in la bemolle, la imponente continuità di quell’accordo, e l’aerea figura, il soave balbettio di sillabe vaghe, accennando alla comparsa dell’umano o del semiumano nell’elemento primitivo, suscita nell’anima un’intensità d’emozione estetica, il nobile turbamento che danno le alte cose.

La raggiungono tosto le vaghe sorelle Wellgunda e Flossilde; il canto delle tre fanciulle sì fonde e s’intreccia insinuante e giocondo, tanto da attrarre il nano Alberico della stirpe dei Nibelungi, che sorge dalle viscere della terra per rimirarle.

Le scherzose Ondine vezzeggiano a vicenda col mostricciattolo, beffeggiandolo, poi, rassicurate dalle sue velleità galanti e scevre di sospetto, quando l’oro, prima in istato passivo,

  1. Wolzogen.