Pagina:Vannicola - De profundis clamavi ad te, 1905.djvu/110

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d’una fatale sorte magnifica? Non era forse quel silenzio l’ansia muta del più alto canto? Non era forse quel vesperale lucore l’attesa dell’ombra per il trapasso ad una più vasta vita, la lenta trasformazione del regno delle forme nel regno delle musiche?

I fantasmi giganteschi e rossastri degli acquedotti diruti, eppure superstiti, invitti, sovrani in quello smisurato sepolcro di cose e di millennii, stavano come la culla e l’ammonimento esaltante all’avvenire di altre cose e di altri millennii.

Il disordine delle loro macerie era simile al tocco ancora indeciso d’una mano creatrice che, posandosi sopra un mondo distrutto, prepara le memorie d’una creazione passata a divenire materia d’una creazione futura.

Io imaginai su quel silenzio terribile il fragore improvviso d’un rullo. Imaginai su quella gran luce stanca l’ombra imperiosa del Destino.

Guardai l’ora indugiare sui limiti dell’orizzonte e le ultime blandizie del sole carezzare lungamente la cupola di Michelangelo, lon-